Flavio Bucci tra cinema e teatro. La bellezza di vivere fuori dagli schemi
Un omaggio a Flavio Bucci, attore istrionico, fuori dagli schemi, indipendente, appassionato, tra cinema e teatro.
Il brigante Don Bastiano in Il marchese del Grillo in una scena culto urla dal patibolo tutta la sua dissacrante rabbia mista a fierezza di fronte alla morte: “E voi, massa di pecoroni invigliacchiti,mpre pronti a inginocchiarvi, a chinare la testa davanti ai potenti! Adesso inginocchiatevi, e chinate la testa davanti a uno che la testa non l’ha chinata mai, se non davanti a questo strummolo qua [..] adesso pure io posso perdonare a chi mi ha fatto male. In primis, al Papa, che si crede il padrone del Cielo. In secundis, a Napulione, che si crede il padrone della Terra. E per ultimo al boia, qua, che si crede il padrone della Morte. Ma soprattutto, posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo!”
A dare corpo e voce a questo mitico personaggio l’attore Flavio Bucci la cui recente scomparsa ha risvegliato il ricordo di un’epoca d’oro del cinema e del teatro italiano, fatti di professionisti instancabili, brillanti, fulgidi esempi del fuoco sacro della recitazione. Flavio Bucci era uno di loro: non godeva sicuramente della fama di attori come Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman o Alberto Sordi, ma il suo talento, il trasformismo, l’intensità di ogni sua interpretazione sono sempre stati unanimemente riconosciuti. Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana, Suspiria di Dario Argento, L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo, Sogno di una notte d’estate di Gabriele Salvatores, Tex e il signore degli abissi di di Duccio Tessari , Caterina va in città di Paolo Virzì, Il Divo di Paolo Sorrentino, sono solo alcuni dei titoli di una lunga ed eclettica carriera.
Flavio Bucci – Indipendente, appassionato, istrionico
Come il “suo” Don Bastiano Bucci è sempre stato un artista fuori dagli schemi, indipendente, appassionato, capace di rendere anche i personaggi secondari fondamentali: come il già citato prete brigante del film di Mario Monicelli con Alberto Sordi o l’operaio scioperante de La classe operaia va in paradiso di Elio Petri che con le sue parole – “La vita di un uomo l’è lunga. Pensa alla vecchiaia. Pensa a quando avrai la spina dorsale spezzata, sì, ma dall’artrite. All’ospedale con la broncopolmonite, mezzo cieco, sordo e senza un amico” – provoca talmente tanto il crumiro Ludovico Massa (Gian Maria Volonté) da mandarlo in tilt portandolo a rallentare il suo insuperabile ritmo di produzione e a perdere un dito, tagliato via da una delle macchine per la produzione industriale.
Per Elio Petri fu anche protagonista del film La proprietà non è più un furto che da molti critici è considerato la conclusione della cosiddetta “trilogia della nevrosi” dopo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (nevrosi del potere) e La classe operaia va in paradiso (nevrosi del lavoro). La nevrosi del denaro in quest’opera grottesca viene manifestata dalle azioni sconsiderate di Total, un ragioniere allergico ai soldi, ossessionato dal marxismo che per ideologia comincia a perseguitare un ricco macellaio (interpretato da Ugo Tognazzi), simbolo del capitalismo, privandolo di ogni bene, anche della sua bellissima amante. Fino alla morte. Flavio Bucci nei suoi monologhi da invasato, con un’espressione da squilibrato in dei primi piani ipnotizzanti è perfetto, riuscendo a comunicare in pieno l’alienazione del protagonista, di una società basata non sull’ “essere” ma sull’ “avere”, anni prima del citatissimo Fight Club.
“Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho, fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere nulla più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. E nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo molti si ammalano di mali vergognosi. Si riempiono il corpo di piaghe, dentro, e fuori. Tanti altri cadono, muoiono. Vengono esclusi, distrutti, trasformati. […] Così nasce l’invidia. E in questa invidia si nasconde l’odio di classe”.
Flavio Bucci – La mimesi di Ligabue
Una faccia che non passava di certo inosservata: gli occhi sporgenti, i tratti marcati, il naso importante, il sorriso beffardo. Una faccia da quadro naif come quegli autoritratti del personaggio che più di tutti lo ha avvicinato al pubblico, una delle prove più forti e spiazzanti della sua carriera: il pittore Ligabue nell’omonimo sceneggiato Rai del 1977. Un momento altissimo di televisione: tre puntate nelle quali l’istrionico Bucci si veste dei panni trasandati del pittore, della sua anima pura, della sua vita disgraziata e lo possiede totalmente. La tenerezza, la pazzia, l’arte, l’amore negato: tutto comunicava quello sguardo spiritato, quegli occhi dolenti. Ligabue si isola dalla società che lo maltratta, vive tra i suoi animali, galline e conigli, in una capanna sul fiume Po, dove dipinge impassibile al freddo e alla solitudine. È la sua arte a bastargli come è successo a Flavio Bucci che come nelle più appassionanti storie artistiche diventa mimesi del “suo” Ligabue.
Provato da una vita di eccessi, con seri problemi di alcol e droga, negli ultimi anni viveva in una condizione di semi povertà prima in una casa famiglia, poi in un piccolo appartamento a Passoscuro, frazione di Fiumicino, aiutato da amici e parenti. Una vita che non gli pesava perché sostenuto nell’anima dalla passione per il suo lavoro: “Se faccio un esame di coscienza – ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica – ho commesso tanti errori e stupidaggini, ma niente è accaduto invano collezionando la bellezza degli incontri, l’umanità in generale, e m’è andata bene perché non sono mai stato perfetto ma l’attività artistica m’ha stimolato a lungo la fantasia, e grazie alla professione mi sono identificato in più vite, ho avuto il cervello continuamente in moto, conoscendo un destino non normale, sublime, appagante”.
Flavio Bucci: “Ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco?”
Sempre lucido, spiazzava per la sua dignità e onestà: “In teatro guadagnavo anche due milioni al giorno. Per fortuna ho speso tutto in donne, manco tanto, che me la davano gratis, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai. Mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, solo di polvere avrò bruciato sette miliardi. E poi cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno? Ma la vita è una somma di errori, di gioie e di piaceri, non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco? Non è stato facile starmi vicino, alcuni hanno resistito e altri meno, si vede che era il mio destino. Io sono come sono. Non mi voglio assolvere da solo e non voglio nemmeno andare in Paradiso”, ha confessato in un’intervista al Corriere della sera.
Attento al presente, al mondo che lo circondava, innamorato del teatro che più di tutto lo appagava – portò sul palcoscenico Opinioni di un clown di Heinrich Böll; Le memorie di un pazzo di Gogol’; Uno, nessuno e centomila; Il fu Mattia Pascal e Riccardo III per citarne alcuni – in una delle sue ultime interviste un anno fa ricevendo un premio alla carriera al Festival del cinema di Spello ha dichiarato: “Il teatro è sempre il mio quotidiano, è un gioco continuo, lo fanno anche i bambini, se non si gioca non c’è più nulla. Io ho 72 anni però ancora mi diverto, ti pare poco?”