Franco Interlenghi e i due profili del cinema italiano
Questo non vuole essere e non sarà mai un ossequio, una lode nei confronti di Franco Interlenghi. Sarebbe ingiusto poichè nessuna parola al mondo potrebbe tributare o rendere la minima giustizia, anche la più opaca, verso ciò che è riuscito ad essere. Personalmente non mi è mai interessato l’attore in quanto figurante o promotore di sè, carattere conferito da l’imago scenica. Ma per le minuziose attenzioni ai dettagli, cosa che in passato venne scaraventata via dal vento hollywoodiano.
Interlenghi ha gestito la sua attorialità come le note in scala, da Do a Do, teoria delle catastrofi, in cui tu sei tu ma non lo sei. Tu sarai sempre la tua più vera forma di menzogna. Egli aveva un retroscena biografico quasi speculare ed empatico che lo stringeva in una morsa ai suoi personaggi. Pasquale, Moraldo, Guido. Sono state le sue storie, le sue regole, le sue rughe, le sue stanchezze, le sue tasche vuote.
Se ci soffermassimo per un secondo a decriptare l’entità cosmogonica di cui era pervaso il cinema neorealista si può comprendere da dove derivasse il suo culto: astrazione artificiale era il dogma delle immagini fino ad allora. Tutto ciò si perderà, in un lampo, poiché De Sica riuscirà a cogliere l’emotività nelle sottili falle oscure, fessure, fenditoie che urlavano, sbracciavano interiorità, in modo dapprima linguistico e poi estetico. I bambini ci guardano, e noi di rimando. Codeste presenze filmiche non riusciranno mai ad assaporare l’ingenua fierezza di stare al mondo: essi sono uomini nell’immediato quotidiano. “Tutte le loro speranze e i loro affetti in un cavallo” dirà il carceriere di Sciuscià, puntando l’attenzione sul rovinoso ruolo che aveva la famiglia all’epoca e alla critica ai presunti valori ferrei del fascismo.
Franco Interlenghi – l’artista del Neorealismo
Contrapposta alla loro condanna, c’è quella di persone altrettanto infauste e miserabili che Interlenghi cucì su di sè grazie all’occhio clinico di Fellini. Egli mirò e rimirò quel mondo arrendevole e succube, come Michael Myers e il muro bianco del suo manicomio. E come costui riviveva le sue paranoie dipingendole allegoricamente su quelle pareti, Fellini decomponeva le sue parti, un abile chirurgo che non si sottraeva se c’era da disaminare o trafiggere. Interlenghi fu ridimensionato non solo in chiave neorealista, ma anche dal melodramma; come disse Bazin in un turbine di volgarizzazione del fenomeno, che non ebbe il La con Fellini, ma che da li a poco si sarebbe scaraventato sul panorama italico divenendo la commedia all’italiana, dopo un tramonto rosa del neorealismo.
I vitelloni, Padri e figli, trovano accesso al grande pubblico poichè riportano in primo piano la borghesia o l’idea di essa che il cinema fino ad allora aveva umiliato ed emarginato. Quindi da un lato abbiamo una linea rosso sangue (neorealista) che si interseca con la comedie italienne e dall’altro la pura commedia nella sua definizione più alta, che diventa quel grottesco involucro che rappresentò un’esigenza nuova, quella che riportasse in vita il rapporto tra risata e abisso, con occhio intelligente e umorismo scanzonato.
In tutto questo marasma di diatribe stilistiche, Interlenghi è stato una presenza multiforme, non solo visiva. Ha confezionato la sua arte come un artigiano, cosicchè l’unica necessità dei suoi fruitori fosse edificatrice di una realtà attraverso le parole, come accade nella poesia. Lui ha potuto tutto, e lo potrà sempre: ha assistito al cambiamento strutturale del cinema italiano, ha attuato quel cambiamento e lo è stato.