Frank Sinatra: The Voice e l’amore per il cinema
La prima volta che ho visto recitare Frank Sinatra, non era in un musical, ma in un film di Tony Scott, Domino (2005). Va’ e uccidi veniva riproposto in televisione mentre Keira Knightley entrava in scena con un fucile e un braccio mozzato tra le mani. Una sorta di cameo, una sottile citazione, più un iperonimo filmico che pura semantica visiva, ed è li che mi colpì quel volto.
Frank Sinatra ha avuto una carriera molto controversa, sembra non aver mai conosciuto declini o incertezze, proprio per questo il suo fu un successo sempiterno ma plumbeo, cadenzato tra rigurgiti malavitosi e una sobria doppia gioventù. La sua era un voce che svestiva, provocava svenimenti, ma il suo impatto filmico non era da meno. Fu un attore molto capace, abile, si muoveva senza impaccio, come se ci fosse un eleganza innata che permeava il suo substrato e che gli permettesse di scivolare letteralmente su ogni personaggio o canzone che gli capitasse tra le mani.
Frank Sinatra – The best is yet to come
Pal Joey (1957) è un film diretto da George Sidney, in cui si destreggia egregiamente tra due fuochi, due bombe atomiche quali Rita Hayworth e Kim Novak, molto più sul pezzo di quanto lui non fosse, nonostante egli incarni un cantante che perde le occasioni migliori invaghendosi delle donne sbagliate. Errante e squattrinato senza mai sentirti a suo agio e inserito in nessun contesto, tranne quando le note lo inseguono e come uno spadaccino misurato e sprezzante del male che arreca, combina bramosia e genuinità nelle sue interpretazioni. Sublime è poi quando dedica The Lady is a Tramp ad un’insofferente e incredula Rita Hayworth, due personaggi che subiscono i loro impulsi ma anche le loro incapacità di gestire sentimenti contrastanti, senza mai capirsi o cogliere il bene che si sono concessi, anche se per poco.
Con lui e i suoi manierismi tanto confacenti all’indottrinamento pre-bellico che imperversava in America negli anni ’50, ritrovarono gioia nuova e un nuovo modo di sputare propagande sui volti vitrei a stelle e strisce quelle pseudo commedie musicali e non del tempo, quali Un giorno a New York (1949) diretto da Stanley Donen, Da qui all’eternità (1953) diretto da Fred Zinnemann, Va’ e uccidi (1962) diretto da John Frankenheimer. Ognuno a suo modo verte sui plusvalori patriottici e le falle che subivano i soldati o i marinai al fronte poi di ritorno con tanto di medaglie, che era più di quanto disonorevole potessero ottenere, ammesso e non concesso che ci fosse davvero qualcosa di cui inorgoglirsi. Ad esempio ciò in Va’ e uccidi è rimarcato e urlato in modo quasi isterico. Laurence Harvey, sergente durante la guerra coreana, torna in America tra applausi e onorificenze con cui non riuscirà mai a misurarsi e ravvedersi, poiché subirà un lavaggio del cervello che lo trasformerà in una vera arma a doppio taglio, per la patria e per il regime che viene sottinteso. Donare la mia vita, prima della mia libertà: l’America che viene ritratta non è nella sua forma migliore. Discorso simile vale per Da qui all’eternità, in cui la vita di un soldato semplice ed ex pugile si mescola con una delle pagine nere della storia americana ossia l’attacco a Pearl Harbor. L’inno nazionale non sa riprendersi, è una stonatura amara, tutta la sua tragicità è l’unico colore che giunge ed è l’unico che si coglie, e le sue note durante le elezioni parlamentari hanno un gusto quasi funereo e moribondo di una nazione che ha perso o mai avuto un’appartenenza reale, che mai si è saputa guardare allo specchio e che troppe volte mascherava l’amore per la bandiera con un recondito e insulso nazionalismo.
Altre sue perle filmiche sono L’uomo dal braccio d’oro del 1955, diretto da Otto Preminger, e Qualcuno verrà del 1958, diretto dal regista Vincente Minnelli.
Il primo è un caso rarissimo in quegli anni di ricoperta morale e rinascita psichica di un giocatore di poker e tossicodipendente, che cade e si rialza e vaga in un vortice di impotenza provando a consolidare le priorità esistenziali lontano dalle bische e fuori dalle sue vene. Una sequenza in cui avviene l’iniezione di eroina è stata ripresa tra l’altro nel film Amore tossico di Claudio Caligari (1983). In Qualcuno verrà incarna un soldato in congedo di interessante partitura morale, poiché ha un cinismo strabordante, oltraggia e cerca di venir meno a qualsiasi tipo di convenevole o condizione di forzata borghesia, si sottrae anche ad un amore borghese ,che lo attrae inesorabilmente, ma i suoi mascheramenti sono più forti dei sentimenti, cosa che lo porterà a sbagliare più del dovuto e a rimpiangere più del dovuto.
Nella sua carriera vinse due Oscar, uno dei quali da attore non protagonista del film Da qui all’eternità. Riuscì a trovare un compromesso efficiente con le sue carriere da attore e cantante e questo gli permise che nessuna delle due vite avesse la meglio sull’altra, non voltò mai le spalle a se stesso così che riuscì ad ottenere riconoscimenti in entrambe le sue arti. La sua più grande arma però fu la sua capacità di ritrovarsi diverso, di proporsi sempre al meglio, la sua moneta remunerativa non era la voce o il volto ma il carisma, il senso di verticalità che gli dava la spinta a non fermarsi, a non perdersi nell’orizzonte di fama e certezza ma che la sua vita potesse sempre essere ardita, una corsa perenne: solo una mente simile poteva tenere inciso The best is yet to come (Il meglio deve ancora venire), sulla pietra che ora fa da memento al suo corpo.