Full Metal Jacket: il significato del finale del film di Stanley Kubrick
Full Metal Jacket porta sullo schermo il sentimento di cui ha scritto Giuseppe Ungaretti nella sua poesia Veglia. Ecco la nostra analisi del significato e del finale.
“Certo, vivo in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho più paura” così dice Joker (Matthew Modine), il protagonista del film, e queste sue parole diventano una sorta di dichiarazione d’amore (verso la vita) e d’intenti (cosa vuole dire il film). Questo è Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick, pellicola ispirata al romanzo di Gustav Hasford Nato per uccidere (The Short-Timers, 1979). Attraverso sangue e violenza, regole e ordine militare, addestramento e campo di battaglia, Kubrick racconta guerra e morte, ma anche l’ansiosa, ansiogena e alienante vita degli addestrati di Parris Island, scrivendo un canto di morte e di vita, composto di percorsi di guerra, corse ed esercizi ginnici, mettendo in scena il suicidio di un’intera generazione, pronta a scattare in nome di una bandiera e di una Nazione.
Full Metal Jacket: il sergente Hartman e il linguaggio della violenza
Kubrick divide l’opera in due parti: nella prima c’è l’Addestramento del Marine che deve essere violento e spietato, nella seconda l’Azione Militare, la guerra vera in Vietnam. Il sergente Hartman (R. Lee Ermey), colui che forma il soldato, è lì per costruire l’uomo d’armi, quello forte, vero, sempre pronto (a combattere ma anche al sesso) e lo fa attraverso la violenza con inni, urla, bestialità e svilimento dei sottoposti. Hartman prepara gli uomini che diventeranno soldati fatti per uccidere – non è un caso che sull’elmetto che porta Joker nella seconda parte del film ci sia la scritta “Born to kill” – per farlo deve prima distruggere quei ragazzi arrivati da tutto il paese. Nei titoli di testa ci sono i giovani americani che vengono rapati a zero – e ad ogni capello caduto un po’ della loro libertà viene meno -, resi gli uni uguali agli altri, per poter diventare “salvatori della patria” ma questo implica l’omologazione che richiede essere meno se stessi e meno unici.
Il sergente inizia una logorante opera di decostruzione attraverso una tortura per il corpo e la mente, colpisce chi non è preparato, chi non è all’altezza; il difetto viene ridicolizzato e chi ne è portatore diventa fantoccio da colpire e colpire ancora: chi è nero diventa Biancaneve, chi è in sovrappeso Palla di lardo (Vincent D’Onofrio). Hartman rappresenta il soldato per antonomasia, maschio, virile, arrapante e arrapato e chiede ai suoi di essere come lui e per fare questo chiama in soccorso la violenza e il sesso e anche il linguaggio che si piega a questo modello: le filastrocche sono piene di allusioni e doppi sensi, il fucile deve avere un nome di donna e deve diventare la donna del soldato, l’unico “buco” che vedranno in quei mesi. L’arma è metafora della forza maschia e il sergente paragona il fallo al fucile e il fucile al fallo e così la galvanizzazione per l’uno è simile all’erezione dell’altro.
In Full Metal Jacket, Kubrick racconta l’individualità o forse la sparizione della stessa. La presentazione dell’istruttore Hartman dimostra come fino alla fine dell’addestramento i soldati non sono esseri umani, sono scarti su cui il superiore lavora, materia organica da plasmare, mentre, nella seconda parte sono un’arma, strumento per uccidere.
La costruzione dell’Uomo-Massa
In Full Metal Jacket l’addestramento clona, uniforma, livella, e questo livellamento è rappresentato anche dal rigore registico che è proprio di Kubrick, padre delle geometrie e delle simmetrie – proprio lì dove l’umanità manca. Tutti corrono allo stesso ritmo, cantano all’unisono, si muovono in sincrono, Hartman deve buttare fuori proprio coloro che rappresentano l’asicronia, l’asimmetria, le note stonate, le cellule disorganiche e disfunzionali a quel Corpo, il cosiddetto Uomo-Massa.
Quella cellula è Palla di lardo; non sa fare, non è capace, non capisce e il suo ritmo e i suoi tempi sono diversi da quelli dei suoi compagni. Ha sempre un sorriso che mal si inserisce in quella prigione “fattrice” di soldati, ha un’ingenuità disarmante che addolora lo spettatore. La violenza che Hartman ha seminato all’interno del campo irrompe sul giovane, i suoi compagni lo irridono, lo picchiano, lo vessano perché questo è il modus operandi a cui li costringe il sergente. Essa sconfina nella follia e aumenta fino ad implodere e quel sorriso beato si trasforma in un ghigno malefico, quegli occhi spaesati si fanno spiritati e brucianti di vendetta e odio.
Ad un certo punto la vittima del sistema capisce il suo linguaggio, lo usa ma l’esito è tragico: Palla di lardo si vendica e diventa una furia contro gli altri e contro se stesso – nel bagno, luogo fondamentale nella cinematografia kubrickiana. C’è un altro personaggio che lungo tutto il film rappresenta una cellula diversa nella fenomenologia della guerra, della violenza e del maschio che Hartman porta avanti, è Joker, simbolo di tutte le contraddizioni e le complessità della Nazione e della condizione di soldato. Lui è uomo di pensiero ma anche d’azione, segue Hartman ma anche se ne prende gioco, indossa la spilla della pace ma parla di guerra.
Nella seconda parte c’è la guerra vera
Dopo l’ultima notte di Parris Island, Full Metal Jacket cambia registro e il rigore maniacale del campo-prigione lascia posto agli esterni, se prima si “giocava” alla guerra, poi si combatte veramente. Nella prima parte Joker incarna il suo soprannome, nella seconda, sul campo, si scontra con la realtà, con il “peso” dell’elmetto e della divisa, con i corpi dei compagni che saltano in aria sotto le bombe. Full Metal Jacket discorsivizza e mette in scena la psicopatologia della natura umana, la celebrazione della più gretta e bassa mascolinità, la spersonalizzazione totale dell’uomo, svilito in tutti i modi, per costruire un Corpo unico.
Kubrick scrive un film che rientra nella sua filmografia (si pensi alla guerra di Orizzonti di gloria) ma è profondamente diverso, è antiretorico, è brutalmente e ironicamente cinico (Marcia di Topolino finale), è un canto di morte ma anche un racconto sull’individuo, su come spesso diventi un banale ingranaggio di un tremendo marchingegno di cui solo alla fine si comprendono senso e meccanismo. Full Metal Jacket è un unicum, un’inquietante poema sulla violenza, sulla follia umana, omicida-suicida, che picchia così duro da non darci pace ma è anche alla fine un inno alla vita mentre si scaccia la paura.
Un racconto di guerra ma anche un inno alla vita
Full Metal Jacket porta sullo schermo il sentimento di cui ha scritto Giuseppe Ungaretti nella sua poesia Veglia: mentre aveva accanto il compagno in fin di vita il poeta non si era mai sentito così attaccato alla vita, la stessa cosa accade a Joker. Il giovane – mentre tutto intorno brucia e si sente la marcia di Topolino – è pronto a tornare alla vita, alla cosiddetta normalità: pensa a ciò che farà da domani in poi e non si è mai sentito tanto vivo. Non si tratta, quindi, solo di un racconto di guerra ma anche di tensione alla vita che nasce e deriva proprio dalla condizione in cui i soldati hanno vissuto, liberandosi dalle spire dalla Morte.