Gli spiriti dell’isola tra teatralità e favola grottesca. Così il film cita i grandi del cinema
Tornare alle origini e rimpiazzare i Fratelli Coen - Teatralità, sarcasmo e cinefilia in Gli spiriti dell'isola. Gli spiriti dell’isola tra teatralità e favola grottesca. Analizziamo la sceneggiatura di Martin McDonagh!
Prima ancora di giungere a Gli spiriti dell’isola, è curioso riflettere sul fatto che Martin McDonagh sia riuscito in qualche modo a rimpiazzare un’autorialità cinematografica assolutamente riconoscibile e considerata fino ad un paio d’anni fa anomala e apparentemente inscalfibile – in quanto animata da situazioni e personaggi unici, paradossali, grotteschi, neri, sadici e violenti, ma allo stesso tempo comici, adorabili e dolci – come quella dei Fratelli Coen, pur restando pienamente sé stesso, conservando cioè la propria voce e vocazione narrativa puramente irlandese, tanto a livello cinematografico, quanto teatrale, scansando l’evidente pericolo dell’emulazione e della ricorrente strizzata d’occhio all’autorialità Coeniana, quella che inevitabilmente torna nella produzione di McDonagh, seppur riletta e fatta propria.
Considerando infatti la Trilogia di Leenane, o quella delle Isola Aran, della quale fa parte perfino The Banshees of Inisheer – terza e conclusiva opera teatrale -, che rappresenta di fatto il materiale letterario d’origine di quest’ultima fatica cinematografica pluripremiata e candidata qual è The Banshees of Inisherin, tradotto in Italia, Gli spiriti dell’isola, si ha l’evidenza di una teatralità dallo spiccato gusto letterario, paradossale, sagace, lirico, eppure fortemente umoristico, grottesco e feroce, destinata a rivivere nella produzione artistica di McDonagh, senza svanire mai.
Presentato in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e distribuito nelle sale italiane a partire dal 2 febbraio 2023, Gli spiriti dell’isola rappresenta in tutto e per tutto un ritorno alle origini per Martin McDonagh, che allontanandosi dalla collocazione profondamente americana dei suoi due ultimi film, 7 Psicopatici (2012) e Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), sembra guardare agli inizi, dunque al cortometraggio Premio Oscar, Six Shooter (2004), ambientato nella sua Irlanda e già colmo dell’autorialità ferocemente umoristica, grottesca e nerissima che ritroviamo ancor più vivida nei personaggi e negli accadimenti di Gli Spiriti dell’isola.
Laddove Six Shooter richiamava immaginari e situazioni tipicamente Tarantiniane, Gli spiriti dell’isola guarda più alla teatralità e forma ibrida Coeniana, quella per intenderci di titoli quali Barton Fink (1991), Fratello, dove sei? (2000), L’uomo che non c’era (2001) e A Serious Man (2009), condividendo con quest’ultimo titolo una costante atmosfera cupa, minacciosa e dall’echeggiante mortalità, così come una vaga, sospesa ma non per questo astratta e invisibile presenza sinistra e fantasmatica – o minaccia? – capace di perseguitare e mutare eternamente gli animi su cui s’affaccia, producendo conseguenze finemente surreali, tragicomiche e violente che sono in definitiva la cifra stilistica dei Fratelli Coen, così come quella di Martin McDonagh.
Non è chiaro se sia presente o meno – o addirittura desiderata – una volontà di “rimpiazzo” autoriale da parte del sempre più noto cineasta e drammaturgo irlandese, nei confronti del duo statunitense precedentemente citato. Quella che appare però è un’incredibile somiglianza stilistica, narrativa, spirituale e ideologica che pur mantenendo una propria personalità e unicità, rischia di mettere sempre più in ombra la produzione cinematografica dei Coen, un indimenticabile e fondamentale creatura cinefila a due teste che pur scrivendo – o riscrivendo – la storia del cinema, giunge lentamente e drammaticamente per tutti noi, ad un’ormai chiacchieratissima divisione, rendendo quella creatura definitivamente vulnerabile, e potenzialmente vicina – o prossima – al suo addio alle scene.
Insomma, amanti dei Coen, approdate al cinema di Martin McDonagh e troverete pane per i vostri denti.
La figura del Numbskull dai Fratelli Coen a Martin McDonagh – Lo stupido, sciocco, goffo e perdente che diviene adorabile
Tutti i fan e gli appassionati del cinema dei Fratelli Coen ne ricorderanno inevitabilmente quello che si può definire il protagonista assoluto della loro narrazione, presentato in modo molto chiaro e diretto da Joel ed Ethan come Numbskull, cioè una sorta di incontro tra sempliciotto, stupido, sciocco, goffo, perdente e stronzo, capace però di apparire in definitiva come una figura portatrice di dolcezza, romanticismo, simpatia e ilarità.
Quella figura talmente paradossale nella sua ingenuità e impreparazione nonsense alla vita e al contesto in cui si trova, da non poter essere altro che la bontà e positività incarnata, posta in contrapposizione alle figure invece negative, molto spesso ciniche, crudeli, sadiche e folli, che nel loro piano violento, spietato e talvolta drammatico rendono immediatamente chiara la ragione per la quale adoriamo e ci rispecchiamo nel Numbskull Coeniano, provando grande pena e sconforto per il suo destino quasi sempre preannunciato.
Il Numbskull infatti non riflette, vive e agisce seguendo l’istinto, l’emotività, senza curarsi delle conseguenze delle sue azioni e perciò ancor meno dei loro effetti duraturi nel tempo, ritrovandosi costantemente vittima di accadimenti molto più grandi di lui, quelli realmente temibili, inarrestabili e inaspettati, di fronte ai quali non può far altro che soffrire e soccombere.
Pur non rispecchiando probabilmente in toto, il modello di vita che ciascuno di noi persegue nella propria routine quotidiana, il sentimento vitale del Numbskull ci ricorda che non è un male seguire l’istinto e l’emotività, incuranti delle loro conseguenze e che talvolta è perfino necessario, poiché non sempre ciò che arriva è peggio di ciò che già c’era.
Se nel cinema dei Fratelli Coen si ha una trilogia ben definita intitolata “Trilogia dell’idiota” della quale fanno parte Fratello, dove sei? (2000), Prima ti sposo poi ti rovino (2003) e Burn After Reading (2008), nel cinema di Martin McDonagh è altrettanto identificabile una corrispondente corrente narrativa e tematica, che ha inizio con In Bruges (2008), che prosegue con 7 Psicopatici (2012) e che termina con il film del momento, Gli spiriti dell’isola (2023). Due trilogie che pur perseguendo la medesima e ideale narrazione della vita di un idiota, si rivelano capaci di riflettere profondamente sul suo animo, scavando oltre la superficie e mostrando la malinconia e talvolta la disperazione di un individuo apparentemente tranquillo, placido e sereno rispetto a sé stesso e al contesto in cui si trova.
La trilogia dell’idiota dei Coen, seppur non esplicitamente – e in modo differente – comprende negli anni anche altri titoli, tra i quali Arizona Junior (1987), A Serious Man (2009) e A proposito di Davis (2013), dove il racconto del solito Numbskull muta radicalmente, concentrandosi non più sulla stupidità e la goffaggine di un uomo, bensì sul suo essere eternamente, inconsapevolmente e in qualche modo immeritatamente perdente, fallito e solo, interpretato nell’ultimo caso da da Oscar Isaac. Giungendo infine ad Ave, Cesare! (2016) che vede il ritorno dell’interprete Numbskull feticcio George Clooney nei panni di un divo hollywoodiano come al solito goffo e demenziale, rapito da una misteriosissima e altrettanto pericolosa congrega.
Laddove i Coen modellavano lo charme, il divismo e l’eleganza di George Clooney (e in qualche caso di Brad Pitt e Oscar Isaac) – l’interprete principale della trilogia dell’idiota -, piegandolo alla loro volontà narrativa estremamente definita in termini di movenze slapstick, fisicità, uso del linguaggio, materiale comico, oscurità e della mimica capaci di rendere quel divo, nient’altro che un bizzarro individuo evidentemente sopra le righe e demenziale nella sua totale impreparazione rispetto ai fatti della vita, Martin McDonagh compie pressoché lo stesso lavoro sul suo idiota, interpretato da Colin Farrell, che da infantile e ingenuo omicida di bambini, diviene sceneggiatore fallito e perdente, fino a vestire i panni di un uomo buono, ma solo, talmente solo da perdere via via tutto ciò che di più caro ha nella vita, pur non facendo nulla per meritarselo, finendo per conoscere realmente la propria perdizione e malinconia insanabile.
È che non mi vai più a genio – La faida assurda e paradossale tra Pádraic Súilleabháin e Colm Doherty
Lo sfondo di tutto ciò che accade nel film, è Inisherin, un’isoletta sperduta, a largo della costa Irlandese. Un pezzetto di terra verde ventoso, cupo e apparentemente abbandonato da Dio, basti pensare alle curiose e non del tutto integerrime personalità religiose, quelle che portano su di sé i valori della chiesa o più in generale della fede che di tanto in tanto appaiono nel corso del film.
Un luogo popolato da individui bizzarri, meschini, moralmente ambigui, se non corrotti, e ancora da anime nichiliste, sprofondate sempre più nel vortice e nero senza fine della depressione e della solitudine, poste in contrapposizione alla bontà, ingenuità e stupidità di altre che sopravvivono invece cercando di scansare le ombre e producendo contrasti talvolta da nulla, o altrimenti insanabili, come quello tra Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell) e Colm Doherty (Brendan Gleeson) che è di fatto il nucleo del film e che McDonagh non ci mostra mai realmente, relegandolo ad un passato di conversazioni noiose, inutili, o inesistenti, tanto da produrre effetti estremi, drastici, violenti e assurdi sul presente che ci viene invece mostrato nel suo evolversi lento, malinconico e catartico.
“Ma tu non mi hai detto niente. E non mi hai fatto niente…”
“Bè, era quello che pensavo”
“È che non mi vai più a genio”
“Sì che ti vado a genio”
“Invece no”
“Ti andavo a genio ieri…”
“Dici, eh?”
“Pensavo di sì”
È proprio da questo primissimo confronto e scambio di battute finemente umoristico e paradossale che ha inizio la faida emotiva e spirituale tra Pádraic Súilleabháin e Colm Doherty, i due protagonisti del film, il cui rapporto muta radicalmente e improvvisamente da un estremo ad un altro, dall’amicizia fraterna e fino ad allora incontrastata e inscalfibile, all’inimicizia, o peggio, al desiderio di invisibilità ed estraneità più totale gridato a gran voce dall’imbolsito, ma non per questo meno minaccioso Colm Doherty e che dà l’idea fin dalle prime sequenze di quanto la faida tra i due non possa che prendere ben presto una piega violenta, paradossale e tragica a tal punto da cancellare ogni benché minima traccia di quel sentimento fraterno, giunto ad un reciproco e definitivo punto di non ritorno, nel momento in cui Colm esplicita a Pádraic tra una pinta ed un’altra di birra il suo piano di auto sabotaggio, violento, folle e inevitabilmente autolesionista, il cui obiettivo è proprio la fine dell’amicizia, il silenzio, la pace.
“Ecco cos’ho deciso di fare. Ho delle cesoie a casa e d’ora in poi, ogni volta che mi darai fastidio prenderò le cesoie e le userò per tagliarmi un dito e te lo darò. Un dito della mia mano sinistra. La mano con cui suono e ogni giorno in cui mi infastidirai, me ne taglierò un altro e te lo darò, finché non avrai il buon senso di smetterla o finché io non avrò più dita. Le cose ti sono più chiare adesso?”
È interessante osservare come McDonagh rifletta sulla scrittura di questi individui elaborandoli come idioti, folli, goffi, apparentemente demenziali, facendoli apparire però di una saggezza evidente e di una poetica e placidità filosofica e spirituale destabilizzante e totale. Basti pensare alle riflessioni di Pádraic su quella guerra allo stesso tempo vicina e distante che nel corso dell’intero film reclama la sua presenza tra colpi di cannone, fumo, spari e via dicendo e che osserviamo svolgersi silenziosamente in lontananza sulla terra ferma.
“Buona fortuna, per qualsiasi ragione voi combattiate”
La crudeltà e la violenza paradossale e dell’assurdo regnano proprio in questa caratterizzazione che è in primo luogo di scrittura e poi secondariamente di interpretazione.
Gli spiriti dell’isola e del cinema di Martin McDonagh – Presenze sinistre e presagi
Il cinema di McDonagh è inoltre colmo di personaggi principali o secondari capaci di spaziare dalla stupidità più profonda alla saggezza più inaspettata e d’ispirazione, fino alla creazione di veri e propri individui sinistri che si muovono guardinghi e nell’ombra, come fossero il male incarnato, preannunciando il sopraggiungere della morte, o anche soltanto di semplici sventure.
Si tratta di personaggi cupi ma di grande interesse, basti pensare a Jim (Jordan Prentice), l’attore affetto da nanismo di In Bruges, o ancora all’Uomo col cappello e la gola recisa (Harry Dean Stanton) o l’anziano e spaventosamente bizzarro serial killer in pensione Zachariah (Tom Waits) di 7 Psicopatici, fino all’anziana donna in nero e forse vera e propria strega Mrs. McCormick (Sheila Flitton) di Gli Spiriti dell’isola. Ciascuno di loro incarna il mistero e la cupezza della morte, ma anche una bizzarria e una morale, dunque tutta una serie di simbolismi che appartengono alla favola, non quella tradizionale, bensì quella grottesca.
“Ci sarà una morte a Inisherin prima della fine del mese”
“Una morte eh?”
“Perfino due morti forse…”
Molti di questi individui vengono mostrati da McDonagh senza alcuna discrezione o interpretazione di fondo – anche da parte dello spettatore -, altri invece, è il caso di Gli spiriti dell’isola, restano ambigui, celati e mostrati in lontananza, come quello spirito sulla scogliera, che in compagnia di Pádraic accoglie definitivamente la volontà d’addio di Siobhán (Kerry Condon) che sta lasciando una volta per tutte quella terra.
La gentilezza e l’arte – Ciò che resta e ciò che se ne va
Se c’è poi un incontro totale e pienamente elaborato tra teatralità e favola grottesca è proprio nel momento in cui Martin McDonagh riflette attraverso la malinconia e la spietata lucidità dei suoi due personaggi principali Pádraic Súilleabháin e Colm Doherty sulla questione del tempo, come entità concreta e necessaria ma in qualche evanescente e mortifera che incessantemente scorre, sfuggendo dalle nostre mani e perciò dell’arte che se studiata e creata con sentimento, esperienza e profonda volontà da parte del suo autore è capace invece di restare, conservandosi consapevolmente o meno nella memoria di chi guarda, ascolta o osserva.
ùNon è importante amarne l’autore, è invece necessario amarne l’opera, questo sembra voler dire McDonagh attraverso le parole e le macabre gesta di Colm Doherty, soprattutto nella sequenza probabilmente più dolce e allo stesso tempo amara del film, che guarda tanto al teatro, quanto alla favola, nella sua intenzione così diretta e inevitabile di consegnare allo spettatore una morale ultima, seppur legata ancora una volta alla visione grottesca, cupa e desolante di McDonagh, quella cioè dello scontro notturno alla locanda tra Pádraic e Colm.
“Tu Colm Doherty, sai com’eri un tempo?”
“No Pádraic, com’ero un tempo?”
“Gentile, tu eri gentile, non è vero? E ora, sai come sei? Non sei gentile…”
“Ah bè, forse la gentilezza non dura, vero Pádraic? Ma ti dirò una cosa che dura”
“Cosa? E non dire una stupidaggine tipo la musica”
“La musica dura!”
“Lo sapevo!”
“I dipinti durano, la poesia dura”
“Anche la gentilezza…”
“Sai chi viene ricordato del diciassettesimo secolo per la sua gentilezza?”
“Chi?”
“Assolutamente nessuno. Eppure ricordiamo tutti la musica dell’epoca, chiunque senza dubbio conosce Mozart”
“Bè io no, la tua teoria è nulla. E comunque parliamo di gentilezza, non… di come si chiama. Mia madre era gentile, io me la ricordo e mio padre era gentile e io me lo ricordo e mia sorella è gentile, io me la ricorderò per sempre, me la ricorderò.”
“E chi altro?”
“Chi altro cosa?”
“Si ricorderà di Siobhán e della vostra gentilezza? Nessuno. Tra cinquant’anni nessuno si ricorderà di noi… tuttavia, la musica di un uomo che vissuto due secoli fa…”
Sulla gentilezza e sull’arte. C’è un perdente e un uomo solo in ognuno di noi, e nessuno ne è più dolorosamente consapevole dei Fratelli Coen e di Martin McDonagh. Correte in sala, Gli spiriti dell’isola è lì ad attendervi.