Così Greta Gerwig si è venduta a Barbie. Analisi di un’operazione commerciale
Allerta SPOILER! Esile nei dispositivi narrativi e confuso nelle idee, Barbie non è un film, ma solo un lungo spiegone sponsorizzato che fa scontare al suo pubblico un eccesso di mercato e un difetto d’arte. A quale prezzo l'ex indie Greta Gerwig si è ‘venduta’ per prendersi il mondo?
Greta Gerwig ci ha ingannati: nata come cineasta indie attenta alla drammaturgia della parola e dell’immagine, è finita venerata maestra di un cinema commerciale e ammiccante con il merito sì – diranno tanti – di riportare (in piena estate!) gente nelle sale e di portare soldi nelle casse di tutti, produttori, distributori e maestranze, ma questo soltanto grazie alla furbesca mercificazione di un vuoto filmico attorno al quale è riuscita, per mezzo anche dell’ausilio di un sontuoso apparato promozionale e influencing, a convocare un rituale collettivo di omaggio nostalgico a un’icona infantile che ha segnato, più o meno indelebilmente, l’immaginario delle generazioni X e Y.
Barbie: a Greta Gerwig non interessa decostruire il mito di Barbie, bensì rinnovarlo e ripromuoverlo. Così finisce per fare del suo film un lungo spot
Se, invece di un film scritto da Gerwig e dal compagno, pure lui ex indie, Noah Baumbach, Barbie fosse stato prima un romanzo di Joyce Carol Oates, l’autrice che ha lavorato narrativamente sul mito ‘di plastica’ Marylin Monroe al confronto con la donna di carne Norma Jeane e il cui libro è stato traslocato in Blonde di Andrew Dominik, il risultato sarebbe stato più intelligente ma anche decisamente controverso, affatto ecumenico e forse molto meno remunerativo. A Greta-Baumbach non interessa affatto fare a pezzi il mito di Barbie, nel senso di analizzarlo, di ‘spacchettarlo’, di capirne i riposti ingranaggi iconografici, ideologici e simbolici, come invece, inconsciamente, sembra essere interessato alle tante bambine che, ben più irriverenti e lungimiranti di loro, negli anni hanno barbaramente distrutto le loro Barbare, infliggendo loro tagli, menomazioni, le più vandaliche e fantasiose forme di vilipendio.
Per la coppia di cineasti è proprio grazie a Barbie, così almeno ci spiega la narratrice a inizio film, in uno dei numerosissimi interventi didascalici fuori o dentro la scena, che le bambine si sono sentite finalmente libere di dare un calcio ai loro bambolotti – e, per metonimia, anche all’incombenza della cura, all’implicita prescrizione dell’accudimento – e di immaginarsi scienziate, giornaliste, presidenti degli Stati Uniti senza ingombri o dipendenze di sorta. Il lungometraggio di Gerwig, divenuto in breve tempo fenomeno pop globale, parte con una nota storico-sociologica per poi farsi rapidamente esistenzialista: Barbie-stereotipo – l’archetipo, a cui hanno fatto seguito numerose versioni alternative – è fiaccata da pensieri di morte, infiltrazioni depressive procedenti dal mondo reale. La perfezione dell’idea, rappresentata appunto da Barbie e dalle sue sorelle-varianti, prese in un’eterna festa e prive di quegli orifizi corporei attraverso i quali le donne reali si nutrono, orinano, defecano, incontrano sessualmente l’altro da sé, resta ammaccata dall’urto con l’evento, con l’irruzione della coscienza della deperibilità, dell’imperfezione, del limite. Le gambe si bucano di cellulite; i piedi si fanno piatti, costretti al contatto con la terra e con la più triviale delle calzature, la Birkenstock, brand che non ha esitato a salire sul carro del marketing indiretto. Per ripristinare la condizione precedente di ignoranza della castrazione, Barbie lascia Barbieland per attraversare il portale che separa il suo regno dal mondo reale: al suo viaggio, si aggiunge Ken-Stereotipo, desideroso di farsi notare da lei, altrimenti troppo dispersivamente impegnata a coltivare la sorellanza per concedersi trasporti sentimentali con l’eteros, il sessualmente altro. Anche se, lo ribadiamo, Barbie e Ken sono come gli angeli: rigorosamente senza genitali.
Barbie ci spiega le cose: il film di Greta Gerwig è didascalico, ma confuso sull’oggetto delle sue spiegazioni
La debolezza narrativa, oltre che negli sviluppi logici – dove finisce l’inquietudine di Barbie per la scoperta della morte? Si risolve tutta nel sorriso scambiato con una vecchia signora in attesa del tram? –, emerge soprattutto come propria del movente: Barbie-Stramba suggerisce a Barbie-Stereotipo la possibilità che una bambina abbia trasferito le sue ansie su di lei. Questa connessione tra bambina e bambola sarebbe foriera di interferenze e ingerenze affettive disturbanti. Nel corso del film, si scopre che quella bambina non è una bambina, bensì una donna adulta, componente del team creativo della Mattel, alle prese con l’elaborazione del distacco da una figlia che sta crescendo e con varie ossessioni di declino. L’innesco narrativo ci appare, dunque, molto esile: quante bambine, dall’anno in cui Barbie è stata inventata, hanno proiettato su di lei angosce poco elaborate? Perché Barbie-Stereotipo viene afflitta solo ora da tali proiezioni? L’unica differenza è che, per la prima volta, è un’adulta a depositarle i propri tormenti? E perché CEO e dirigenti Mattel sono così preoccupati, soltanto ora, di questa tardiva rottura del divisorio emotivo-spaziale tra piccole fruitrici di bambole e bambole fruite? Che cosa li spinge veramente ad agitarsi tanto? Che cosa temono? Il film sembra poco interessato alla sua trama e a risolverne i misteri; ben di più lo è ai suoi contenuti, anzi ai suoi content. Barbie ci spiega, infatti, molte cose di come va la vicenda, piuttosto inerte, sulla scena, e, insieme, di come va il mondo, in un didascalismo asfissiante che meglio si sarebbe adattato a un saggio, a un testo di non fiction: ce le spiega, queste varie cose, la narratrice; ce le spiegano i personaggi; ce le spiega, in un’orazione monologante che strappa entusiasmi, soprattutto la mamma di figlia adolescente di cui sopra, lamentando il fatto che “essere una donna è impossibile” perché qualunque cosa una donna faccia o voglia essere non va mai bene.
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Ora, al di là dell’abuso di inserti narrativo-descrittivo-didascalici in un’opera che, in quanto non libresca e di finzione, dovrebbe prediligere dispositivi mimetico-mostrativi e al di là dell’inopportunità di continuare ad assecondare una certa mitologia vittimaria sul femminile visto come calvario, il punto della questione è che, di norma, prima di spiegare, sarebbe il caso di capire che cosa esattamente si vuole spiegare, che cosa, cioè, farebbe di una donna una donna, che cos’è una donna. Bisognerebbe, per prima cosa, chiarirsi le idee sull’oggetto delle proprie spiegazioni. Barbie non sembra averle così chiare. La Mattel ha in effetti risposto all’interrogativo producendo una Barbie per ogni categoria ‘femminile’, per ogni possibile soluzione identitaria, dal cliché al contro-cliché. Il film risponde alla domanda – un enigma non da poco: per comprenderne la portata, si pensi a come è stato affrontato, sempre solo provvisoriamente, da arte, letteratura, filosofia, psicoanalisi – abilitando, invece, una vera e propria guerra dei sessi. Partito dunque come riflessione sociologica, fattasi prontamente filosofico-esistenzialista, Barbie prende a ragionare sul rapporto tra i sessi e su ciò che ci si attende dai maschi e dalle femmine, su quelli che dovrebbero essere i sintomi del maschile e del femminile, vale a dire quelle sembianze sociali che un maschio è disposto ad assumere per farsi maschio e, ugualmente, la femmina per farsi femmina. Per sincronizzare il dato biologico con la maschera culturale. La scena ‘altra’ di Barbieland-Kendom duplica questo gioco di travestimenti accolti o rigettati, specularizza la realtà sociale. Ma il ragionamento s’interrompe – o s’inceppa? – presto per semplificarsi in una polarizzazione, in una battaglia tra opposti, quasi che il maschile possa configurarsi soltanto come non femminile e viceversa, senza problematizzare in alcun modo le conseguenze della porosità psicologica di maschile e femminile.
Barbie di Greta Gerwig non propone nessuna nuova riflessione, se non quella sull’inevitabilità (forse) dell’adesione alle leggi di mercato
Barbie-Stereotipo e Ken-Stereotipo scoprono che, nel mondo reale, le donne non sono il primo sesso, ma ‘beauvoirianamente’ il secondo, e che i retaggi patriarcali resistono anche se nascosti meglio, ed allora Ken decide di sfruttare la scoperta a proprio vantaggio, sovvertendo Barbieland, che diventa Kendom, ed esautorando le donne dai ruoli di potere e di protagonismo precedentemente occupati. L’operazione di recupero del primato perduto da parte delle donne, in una logica che comunque inizialmente continua a gerarchizzare i sessi e a inserirli in una sintassi di subordinazione dell’uno all’altro, sebbene nell’interscambiabilità di questo uno e di questo altro, assume il carattere, a tratti regressivo, di una ridicolizzazione del maschio: i Ken, dal mondo reale, hanno mutuato le insegne falliche e di quelle si fanno forti, ma le Barbie sono più furbe e si servono della loro astuzia, che appunto manca al maschio beota e beante delle fanfaronate attuate a copertura della sua fragile virilità, per restaurare lo status precedente al sovvertimento. Alla fine, lo scontro si scioglie nella consapevolezza che nessuno dei due sessi vuole più subordinarsi all’altro: Barbie e Ken, vale a dire femmine e maschi, d’ora in poi coopereranno per scardinare la mentalità della sopraffazione e della predazione del maschile sul femminile, o viceversa. Nulla di nuovo, insomma. Barbie non aggiunge molto a rappresentazioni e riflessioni già abbondantemente masticate; quelle rappresentazioni e riflessioni le riduce anzi all’osso, ingolfandole dietro una copertura sonora scintillante e smaltandole di interpretazioni sì appiattite sul registro grottesco, ma comunque trainanti, da parte di un cast capace a più livelli ed efficace, soprattutto esteticamente, sia nella dimensione individuale sia in quella corale.
L’unica considerazione che questo film-spot d’immaginazione pigra, sciatto per idee e scrittura (ma dopato dalla pubblicità), può suscitare si situa allora, esclusivamente, nell’ordine extra-artistico del dibattito: quanto è inevitabile, anche per i cineasti originariamente di vocazione diversa, finire ad accettare le leggi di mercato per poter restare rilevanti? Del resto, a saper leggere tra le righe, non possiamo dire che Greta Gerwig non ci avesse avvisati: nel suo Piccole donne, il lungometraggio che ha realizzato prima di Barbie, adattamento del capolavoro di formazione ancora oggi pilastro della cultura letteraria e simbolica statunitense, passava molto chiara l’idea secondo la quale non può considerarsi femminismo tutto ciò che esiste al di fuori di una mentalità imprenditoriale, di una logica del prezzo: soprattutto il prezzo dato al lavoro delle donne, le quali devono pretendere non solo di rivendicare la loro autorialità, ma anche di vederne ben pagati gli stessi frutti. Anche qui, niente di nuovo. Lo aveva già scritto Virginia Woolf: perché una donna possa affermarsi, deve possedere perlomeno una stanza tutta per sé. Tradotto: una condizione di agio economico e logistico che le consenta di sviluppare il suo genio. Greta Gerwig non si è accontentata della stanza, ma ha voluto (legittimamente) il mondo. Peccato che, per prenderselo, abbia accettato le leggi dell’industria hollywoodiana, leggi che, al di là delle politiche di rappresentanza, dei ‘contentini’ e delle pari opportunità, sembrano ancora oggi votate a difendere l’innegoziabilità dei valori fallici. Aveva scelta? Forse avrebbe potuto abbandonare anche lei, come la sua Barbie, il regno della festa continua. Un regno che, esattamente come Barbieland, sta iniziando a mostrare le sue crepe, e non è detto che vi sopravviverà.