Il caso Spotlight: la storia vera alla base del film di Tom McCarthy
249 sacerdoti, 1500 vittime e un'inchiesta che fa emergere la favola nera in cui il bambino è un Cappuccetto rosso mangiato, umiliato e violato da un lupo che credeva amico.
Nell’estate del 2001 al Boston Globe arriva un nuovo direttore, Marty Baron. Decide di indagare su un caso scottante, l’abuso da parte di un sacerdote di numerosi ragazzini, di fronte al silenzio della Chiesa. Questa è la storia da cui prende le mosse Il caso Spotlight, il film di Tom McCarthy, che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura originale ai primi Oscar 2016.
Il caso Spotlight: la storia vera alla base del film racconta di 249 sacerdoti e 1500 vittime
Il caso Spotlight è un racconto squarciante come una lama, pesante come un macigno, che narra con una stile scarno le violenze perpetrate da preti ai danni di un gruppo di minori. L’inchiesta alla base di Il caso Spotlight ha preso le mosse nel 2001 dal caso di padre John Geoghan, accusato di avere molestato sessualmente decine di bambini tra il 1962 e il 1993. 249 sacerdoti, 1500 vittime, numeri che fanno rabbrividire e lo fanno ancor di più se si pensa che la storia è vera. Nonostante il tentativo della Chiesa di coprire ogni traccia, gli abusi di padre Geoghan sono arrivati sui giornali già nel 1996, ma solo grazie al team Spotlight la stampa ha iniziato a occuparsi della vicenda in maniera strutturata.
Il lavoro necessario dei giornalisti del Boston Globe, tra cui Sacha Pfeiffer, interpretata da Rachel McAdams, ha portato effettivamente alle dimissioni del cardinale Bernard Francis Law, accusato di avere coperto i prelati colpevoli, e ha portato alla luce quella che si è rivelata una rete di abusi di proporzioni smisurate. L’inchiesta è stata effettivamente insignita del Premio Pulitzer nel 2003. Tutto questo rende ancora più insopportabile la visione del film perché è ripugnante l’idea di ciò che quei bambini, divenuti oramai adulti, hanno vissuto, come anche l’idea di ciò che è stato orchestrato per nascondere, eliminare la tracce.
Il silenzio ferisce, umilia, ma a ferire e umiliare sono anche le parole che i giornalisti usano per la loro inchiesta. La narrazione segue pedissequamente il lavoro del giornalista e infatti non è tanto l’azione a dar forma al film, ma i documenti, le interviste, i ricordi. Quelle vittime hanno nomi, cognomi, esistenze reali e il lavoro di McCarthy è quello di esporre i fatti, far capire, seguendo gli insegnamenti dei grandi film d’inchiesta degli anni ’70.
Il caso Spotlight: un film di cui si sente la necessità
Sacha Pfeiffer dice che il lavoro del film è accurato, talmente accurato da ricordare con parole avvilenti e oscene la disturbante intervista a un prete che ammette di avere compiuto degli abusi, ma di non avere violentato nessuno e di non avere provato piacere. Ci sono pochi cambiamenti rispetto a ciò che è successo, gli autori hanno portato sullo schermo una storia autentica, fedele ai fatti per come si sono svolti.
Il team di Spotlight inizia a poco a poco a riannodare i fili della storia, lavorando alacremente, senza sosta, e non senza difficoltà, all’inizio non poteva neppure accedere agli atti ufficiali del tribunale, secretati per volere del giudice. Dal coraggio di Patrick McSorley, il primo ex bambino che ha raccontato ciò che aveva subito, molto è successo e un film come Il caso Spotlight può fare ancora di più, arrivando al pubblico grazie alla potenza del mezzo cinematografico e grazie al potere immersivo della sala. Il film di McCarthy divide il mondo in buoni e in cattivi, in bene e male, ma è necessario per comprendere il messaggio; tale divisione non toglie di profondità né ai personaggi né alla storia stessa che proprio per il rigore con cui è stata scritta arriva dritta allo spettatore, non è figlia di un superficiale manicheismo è invece figlia di un eroismo umano e “normale”.
Il caso Spotlight è una cruda favola nera in cui il lupo viene catturato
Il caso Spotlight vincitore del premio come miglior film e come miglior sceneggiatura originale è una pellicola sul buon giornalismo, su un dramma che purtroppo è ancora presente, che deve essere combattuto con la parola, con le inchieste e non con verità taciute e tragicamente coperte. L’idea che un vescovo compri il silenzio per salvare un prete è inimmaginabile, nauseante e il fatto che una pellicola ponga questa storia al centro discorso è importante per una società che voglia definirsi civile. Lo sdegno è necessario, squarciare il cono d’ombra è doveroso, e ogni singola parola è punto di partenza per scoprire qualcosa di più; Il caso Spotlight diventa memento di quell’indignazione che rende l’uomo umano, vivo e essere sociale.
Quello schermo nero su cui scorrono i nomi dei bambini violati è un’immagine che lo spettatore si porta dietro anche dopo la fine del film, quei grandi nomi della Chiesa che ancora oggi sminuiscono la portata di tutto questo feriscono. Il caso Spotlight porta a galla una favola nera in cui il bambino è un Cappuccetto rosso mangiato, umiliato e violato da un lupo che credeva amico e lo spettatore di fronte a tutto questo si sente nudo, una sorta di Giano bifronte in corpore che da una parte prova un senso di colpa perché la pancia del lupo è stata squarciata troppo tardi, dall’altra si sente sollevato perché il lupo è stato catturato.