Il diritto di opporsi: la storia vera che ha ispirato il film
Il diritto di opporsi di Destin Daniel Cretton si basa su un'increbile storia vera: quella dell'avvocato Bryan Stevenson e della Equal Justice Initiative
In sala dal 30 gennaio, Il diritto di opporsi è il nuovo film del regista de Il castello di vetro e Short Term 12, Destin Daniel Cretton. Il film, interpretato magnificamente da Michael B. Jordan, Jamie Foxx e Brie Larson, è tratto dalla vera testimonianza dell’avvocato americano Bryan Stevenson, autore del libro Just Mercy e – soprattutto – fondatore dell’Equal Justice Initiative.
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In Just Mercy Stevenson racconta i motivi e i casi con cui la Equal Justice Initiative si è fatta strada, partendo dall’anno della sua fondazione – il 1989 – a Montgomery, Alabama. In particolare, il caso più importante e uno dei primi ad essere risolto positivamente, è quello riguardante Walter McMilian, condannato a morte per omicidio. Nel film di Cretton il detenuto è interpretato da un Jamie Foxx in gran spolvero, che supera il gap della somiglianza fisica con una performance di grandi sensibilità e credibilità. Il lavoro del regista e cosceneggiatore è partito dal confronto diretto con l’autore del libro, nonché protagonista dei fatti raccontati, Bryan Stevenson, ma, per quanto il film sia decisamente ben riuscito, è la storia vera – proprio perché accaduta realmente – ad essere straordinaria.
La storia vera de Il diritto di opporsi: il caso di Walter McMilian
Nato nel 1947, Walter McMillian era un abitante della cittadina di Monroeville in Alabama. McMillian era benvoluto dalla sua famiglia e dalla comunità dove era cresciuto raccogliendo cotone, per poi aprire una sua attività di trasformazione del legname. Poco prima di essere incastrato come omicida della 18enne Ronda Morrison, era stato al centro di uno scandalo per via di una relazione con una donna bianca. Questo, dichiarò, era stata la sua unica colpa. Nel 1987, mentre tornava dal lavoro, McMillian venne fermato dalla polizia locale con l’accusa di omicidio: da allora iniziò un incubo giudiziario che lo portò per 15 mesi nel braccio della morte, prima ancora che fosse aperto il processo.
Nel 1989 il giudice Robert E. Lee Key pronuncià la sentenza definitiva, condannando a morte McMillian nonostante l’opinione della giuria, che aveva invece proposto l’ergastolo. Un peggioramento di pena decisamente drastico, permesso da quello che in America chiamano il judge override, ovvero la possibilità del giudice di sorpassare il verdetto della giuria. Molti condannati a morte negli Stati del Sud sono finiti sulla sedia elettrica proprio a causa di questa norma.
Il primo processo a McMillian, durato circa un giorno e mezzo, ha avuto diversi elementi che non quadravano affatto, e che saranno successivamente riesaminati da Stevenson. Tra tutti, lo spostamento del processo in una contea a maggioranza bianca, diversa da quella in cui si era svolto il delitto, giustificando la scelta con il mantenimento dell’ordine pubblico. In questo modo, però, la maggioranza dei giurati (che devono essere proporzionati all’etnia degli abitanti) era estranea alla comunità di McMillian. Inoltre, la prova schiacciante verso l’imputato era costituita dalla testimonianza, che in seguito si sarebbe rivelata mendace, del criminale recidivo Ralph Myers (nel film interpretato da Tim Blake Nelson).
Myers sarebbe stato interrogato più di una volta, ma le testimonianze riportate nel primo processo sarebbero state parziali. Successivamente sarebbe venuto fuori che al testimone sarebbero state fatte pressioni per accusare McMillian, la cui condanna avrebbe fruttato – invece – a Myers uno sconto di pena.
Il ruolo della Equal Justice Initiative
Come raccontato ne Il diritto di opporsi, alcuni anni dopo l’arresto di McMillian Bryan Stevenson si recava in Alabama per esercitare la difesa dei condannati a morte che non avevano goduto di un’assistenza adeguata. Unendo una grandissima competenza legale e un profondo senso di giustizia, Stevenson è incappato presto nello strano caso del taglialegna di Monroeville.
La sua tenacia nel riaprire il processo e l’evidenza che l’esame degli alibi e dei testimoni metteva in campo, ha fatto sì che la vicenda di McMillian potesse godere di un inaspettato lieto fine. Come è raccontato nel film, durante il processo del 1993 McMillian fu scagionato da tutte le accuse e poté tornare dalla sua famiglia. Il ruolo dell’associazione Equal Justice Initiative, fondata da Stevenson insieme all’attivista Eva Ansley (che nel film ha il volto di Brie Larson), è stato fondamentale: prima di allora era piuttosto raro che si riaprissero casi considerati risolti, tant’è che lo stesso Stevenson ricevette alcuni rifiuti prima di riuscire a tornare in aula.
Un ruolo importante in questo processo l’ebbero anche i media e, in particolare, il programma televisivo 60 Minutes della CBS News. Là dove non erano riuscite le petizioni popolari (firmate soprattutto da cittadini afroamericani), riuscì la televisione, facendo in modo che tutto il Paese puntasse il dito contro la condotta razzista e anticostituzionale del giudice che aveva condannato McMillian.
Dopo essere uscito dal braccio della morte, McMillian si imbarcò in una causa contro i pubblici ufficiali che lo avevano ingiustamente condannato. Per questo motivo finì anche davanti alla Corte suprema, che lo spinse a patteggiare per via di alcune norme che garantivano gli sceriffi locali dal risarcimento economico. Il suo caso, comunque, contribuì alla riforma dello Statuto dell’Alabama del 2002.
Il diritto di opporsi: Herbert Richardson e Anthony Ray Hinton
Durante i primi mesi di attività di Stevenson in Alabama, l’ex veterano del Vietnam Herbert Richardson fu ucciso dallo Stato sulla sedia elettrica. Era il 18 agosto 1989. Ne Il diritto di opporsi di Destin Daniel Cretton, il detenuto è interpretato da Rob Morgan che riesce a rendere magnificamente la complessa psicologia del personaggio. A contrario di McMillian, Richardson era effettivamente colpevole del crimine per cui era stato condannato, eppure le attenuanti del suo stato psichico rendono la sua esecuzione al limite della già deprecabile legalità americana.
Richardson aveva combattuto in Vietnam, dopo un’infanzia in cui era stato vittima di abusi. Al suo ritorno in patria, aveva sofferto – come molti suoi commilitoni – dei danni permanenti della guerra. Come se non bastasse, Richardson aveva combattuto in una delle zone più dure di tutto il conflitto ed era praticamente l’unico superstite del suo plotone. Una volta a Brooklyn, Richardson fu di frequente ricoverato per via dei suoi problemi psichiatrici e in ospedale incontrò un’infermiera, di cui si invaghì.
Quando la donna tornò a casa, in Alabama, Richard decise di seguirla e di costruire un ordigno esplosivo vicino al suo porticato. Sarebbe dovuto essere un gesto disperato per attirare la sua attenzione, dimostrandole di essere in grado di detonarlo e di salvarla. Qualcosa, però, andò storto e a raccogliere la bomba fu la piccola Rena Mae che morì sul colpo.
Un altro personaggio che compare ne Il diritto di opporsi è Anthony Ray Hinton, che ha trascorso ingiustamente trent’anni nel braccio della morte. Il suo è un caso che si è concluso solo nel 2015, dopo un primo processo avvenuto nel 1985 basato su perizie insufficienti. Hinton era stato accusato – 29enne senza delitti gravi alle spalle – di aver sparato a John Davidson e Thomas Wayne Vason in un fast food, durante una rapina. L’accusa si basava sull’ipotesi che l’arma del delitto fosse la revolver di proprietà della madre di Hinton – ipotesi che si rivelò, con una perizia balistica successiva, inesatta.
Anche nel caso di Hinton, fu la forza di volontà di Stevenson e della EJI a far sì che il detenuto godesse di un nuovo processo che, con i giusti mezzi e un’assistenza adeguata, riuscì a far valere la giustizia. Oggi, l’Equal Justice Initiative conta più di quaranta membri e diversi casi di successo giudiziario in cui si è riuscita a colmare la disparità economica e sociale di molti detenuti accusati ingiustamente o senza tener conto dei loro diritti. Facendo valere il principio del “siamo molto di più delle nostre colpe”, Stevenson continua a lavorare col suo team, pubblicando diversi studi sul rapporto tra razzismo e giustizia, partecipando così al difficile dibattito sulla pena di morte, tutt’ora in uso in alcuni Paesi degli Stati Uniti.