Il fabbricante di lacrime? Cringe! Così la gen Z stronca il film Netflix
Alcune giovani spettatrici di età compresa tra i 15 e i 17 anni hanno condiviso con Cinematographe.it le loro impressioni sul teen movie attualmente più visto su Netflix. Senza risparmiare critiche.
Abbiamo guardato Il fabbricante di lacrime con una seconda, una terza e una quarta di tre diversi indirizzi – scienze umane; linguistico; economico-sociale – di un liceo di provincia. E abbiamo chiesto alle ragazze – i compagni si sono rifiutati di partecipare al gruppo di visione – di esprimere un giudizio. Il risultato? Quasi tutte lo hanno bocciato. L’aspetto meno riuscito? La recitazione di attori troppo “improvvisati ed enfatici”.
Il fabbricante di lacrime: nel passaggio dal romanzo (pieno di cliché) al film Netflix (“surreale“), qualcosa non è andato per il verso giusto
Il fabbricante di lacrime, teen romance prima apparso su Wattpad, poi viralizzato da TikTok e infine pubblicato da Magazzini Salani, è un fenomeno editoriale che identifica la generazione Z: anche coloro che non lo hanno letto ne conoscono per sommi capi la storia. Rigel e Nica, i protagonisti, s’incontrano in un orfanotrofio di una città imprecisata della provincia americana e insieme ne escono, alle soglie della maggiore età, per entrare, da ‘fratelli’, nella casa di una coppia volonterosa e amorevole. Lui è cupo, misterioso, respingente per non essere respinto: è convinto di non meritare amore; segretamente lo desidera. Più lo desidera, più si rende intrattabile per non farsi raggiungere, eppure qualcosa lascia trapelare: con Nica, al contrario dolce e ingenua, col complesso dell’insignificanza, si comporta in modo particolarmente detestabile proprio perché, in fondo, di lei è innamorato.
Tra i deredere, personaggi-tipo – vale a dire dei tropi, dei cliché rappresentativi – dei manga e/o degli anime, c’è anche lo tsundere, ragazzo o ragazza dall’apparenza fredda o scontrosa o addirittura aggressiva che si rivela nel tempo amabile. InuYasha, ad esempio, è uno tsundere: sembra un duro, ma è tutto il contrario. «Fuori Rambo, dentro piango» recita una barra di Guè contenuta nel pezzo di Tedua Scala di Milano: ecco, lo tsundere oppone agli altri una corazza friabile mentre internamente langue e spasima per essere riconosciuto soggetto degno di dare e ricevere amore. Rigel si caratterizza, dunque, secondo il medesimo scheletro personologico trasversale ai particolarismi culturali, tanto appartenente, come visto, ai codici nipponici quanto, ad esempio, a quelli cinematografici e televisivi americani, mentre Nica colora a suo modo la sagoma altrettanto topica della giovane delicata che si crede invisibile, e invece viene vista e scelta proprio dal più spinoso degli evitanti, dal più torturato dei tenebrosi. Un fantasma – sedurre e redimere il bad boy; di questi tempi, si direbbe il ‘malessere’, allergico all’impegno amoroso – che sembrerebbe ancora oggi abitare gli inconsci di molte fanciulle in fiore (e non solo).
Il ponderoso romanzo infoltito di collaudate stereotipie dalla facile presa adolescenziale è stato recentemente adattato a film da Alessandro Genovesi, distribuito da Netflix e, com’era prevedibile, a pochi giorni dal debutto (lo scorso 4 aprile), domina la top 10 dei più visti. Tutto bene, se non fosse che, a giudicare dai pareri raccolti tra le studentesse di tre classi di un liceo di provincia a cui abbiamo chiesto di guardare il lungometraggio per “recensirlo con rigore”, la traduzione da libro a film del fenomeno editoriale firmato Erin Doom non sembrerebbe affatto riuscita. Tra i termini più ricorrenti per giudicarlo c’è “cringe”, aggettivo inglese entrato nel gergo dei più giovani e utilizzato per definire qualcosa di imbarazzante per chi lo osserva, qualcosa di simile al sentimento del contrario di pirandelliana memoria: vediamo una signora in là con gli anni vestita da ragazzina e la sua ci appare una condotta impropria, maldestra, ridicola. Se ci pensiamo un attimo di più, capiamo che, dietro la scelta di abbigliamento, c’è probabilmente la dolorosa impossibilità di accettare la sua età, un bisogno insoddisfatto di riconoscimento, e allora alla derisione subentra la comprensione e, forse, anche un po’ di compassione.
Le studentesse stroncano Il fabbricante di lacrime: “Gli attori protagonisti fisicamente sono come immaginavamo Rigel e Nica, eppure non riescono a interpretarli sentendoli fino in fondo“
“Il libro mi era piaciuto molto, perché mi aveva fatto venire voglia di tornare a leggere, dopo anni in cui lo facevo controvoglia e solo se obbligata dai professori”, riconosce una prima studentessa, attualmente iscritta a una seconda superiore. “Il punto di forza dell’opera di Erin Doom è la scrittura visiva: leggi e riesci a immaginare quello che leggi; te lo vedi davanti come se fosse un insieme di scene. Per questo, pensavo che il film sarebbe stato bello, e invece mi ha molto deluso“.
“Le scene sono montate a caso: il film sembra fatto da pezzi messi in fila senza collegamento”, aggiunge una compagna che confessa di non aver letto prima il libro: “se non hai letto prima il romanzo, non comprendi bene”. “Non c’è attenzione per i dettagli”, sostiene un’altra ragazza, quindici anni, precisando che, ad esempio, “in un’inquadratura iniziale, si vede un camion, poi, però, non si vede più; l’impressione è che ci sia sempre qualcosa che non torna, elementi messi lì a caso, senza connessione con la storia”. In una terza, lamentano soprattutto la “scarsa fedeltà” a quanto raccontato nel romanzo. Una ragazza si chiede perché “cambiare la storia” se “l’aspetto più interessante del libro non è la scrittura, ma proprio la storia”. Quasi tutte le intervenute concordano sul fatto che “il film mantiene il messaggio complessivo del libro, ma la realizzazione tecnica è scadente”.
Un paio di ragazze di quarta, le più grandi del nostro campione, confessano di averlo visto “perché tutti ne parlavano” e di averlo trovato, oltre che “cringe” – si veda sopra –, “surreale, privo di alcuna credibilità”. La più ricorrente tra le critiche, puntualmente mossa dalla maggior parte delle ragazze ascoltate nelle diverse classi, riguarda tuttavia le performance degli attori principali, Simone Baldasseroni, conosciuto anche come Biondo, e Caterina Ferioli. “Rigel e Nica me li immaginavo proprio così fisicamente, ma gli attori si vede troppo che recitano, non sono riusciti a immedesimarsi, a sentire i personaggi fino in fondo, a interpretarli come fossero loro stessi” fa notare una delle giovanissime spettatrici mentre una compagna chiosa protestando, in particolare, per “l’assenza di mestiere” perché “si nota che si sono improvvisati attori, che non hanno alle spalle la preparazione necessaria a recitare”. Un’altra contesta “l’eccessiva enfasi nei momenti più drammatici”. “Quello, soprattutto”, conclude, “mi è sembrato cringe” perché “quando si recita, non bisognerebbe mai forzare le espressioni, esagerare un sentimento”.