Il prodigio: la spiegazione del film di Sebastián Lelio
Il prodigio è un racconto visivamente sontuoso, narrativamente teso ed emotivamente perturbante di un’inappetenza ‘miracolosa’: proviamo a comprenderne passaggi e simbologie.
Il film Il prodigio, tratto da un romanzo della scrittrice dublinese Emma Donoghue e ispirato a fatti realmente accaduti, nonostante l’esilità della trama, mantiene alta la suspense fino alla fine, quando scioglie i nodi di una vicenda che, più che con il misticismo, ha a che fare con i lacci dell’oscurantismo e del fanatismo che annida in certe famiglie carceriere. Ben al di là delle convinzioni religiose.
Il prodigio: buone e cattive madri nel film Netflix di Sebastián Lelio
Il regista cileno Sebastiàn Lelio (Gloria; Una donna fantastica; Disobedience) ritaglia nei piccoli schermi degli abbonati Netflix l’omonimo romanzo della scrittrice dublinese Emma Donoghue, mantenendone tensione e compattezza. Il prodigio è ambientato nelle Midlands irlandesi, nel 1862, in epoca di carestia. L’infermiera Lib Wright, veterana della guerra in Crimea, vi arriva dall’Inghilterra per corrispondere la richiesta di un comitato guidato dal dottor McBrearty, il medico della Contea: alternandosi a una suora, sua collega, dovrà osservare per due settimane Anna O’Donnell, una bambina di undici anni che da quattro mesi non si nutre se non di “manna dal cielo”. La piccola è oggetto delle attenzioni morbose della comunità nonché di una sorta di culto devozionale.
Donna razionale, con piena fiducia nella scienza, affatto incline allo spiritualismo e apertamente ostile alla religiosità esasperata della gente di quei luoghi a lei alieni, Lib vede incrinarsi il suo scetticismo man mano che approfondisce il suo rapporto con Anna. Non solo non riesce a comprendere da dove tragga il nutrimento che la sostiene in forze – la bambina non appare deperita e lei, d’altra parte, non trova cibo nascosto da nessuna parte – ma pian piano comincia anche a maturare nei suoi confronti uno slancio materno, un impulso di accudimento che scopriamo frustrato dalla morte prematura di una figlia neonata, vissuta appena tre settimane.
Passato un po’ di tempo, un’intuizione le permette di sbloccare la situazione: per capire la fonte da cui trae sostentamento Anna, occorre separarla dai genitori. Il repentino tracollo delle condizioni di salute della bambina le fornisce allora la chiave per risolvere l’enigma: Anna è tenuta in vita dalla madre Rosaleen che, attraverso il bacio del buongiorno e della buonanotte, le passa del cibo masticato in bocca. Il passaggio degli alimenti attraverso il bacio rimanda a un’immaginario fortemente regressivo, un immaginario di impronta orale, e, in filigrana, incestuoso.
Nella famiglia della piccola, chiusa e ripiegata su di sé, schermata dal contatto con l’esterno, autarchica ed endogamica, cova, infatti, un segreto: Anna, in passato, era stata ripetutamente violentata dal fratello maggiore, poi morto a causa di una misteriosa malattia. Di quella fine violenta e precoce, e della conseguente sospensione dell’anima del defunto nella terra di mezzo del purgatorio, si sente responsabile la stessa bambina, ritenuta dalla madre causa della condotta pedofila ed incestuosa del fratello e, pertanto, in un rapporto di causalità distorto dalla superstizione e dall’ignoranza, della sua punizione divina attuata attraverso la morte.
Il prodigio: storia di una bambina liberata
Negli stessi giorni in cui Lib porta avanti la sua osservazione, il reporter locale William Byrne, ex compagno di scuola della sorella maggiore di Anna, scrive un articolo in cui accusa i genitori della bambina non solo di essere bigotti e retrivi, ma anche di aver orchestrato un vero e proprio bluff ai danni dei creduloni. L’uomo, che ha perso la famiglia “per fame” e che pertanto non può accogliere la narrazione santificante di e su una ragazzina che sopravvive per volere di Dio senza aver bisogno di mangiare, intreccia una relazione con Lib e si avvicina anche lui, sempre di più, alla piccola ‘miracolata’: le regala un monile-gingillo di forma rotonda che, a seconda del lato in cui viene capovolto, mostra un uccello dentro una gabbia o al di fuori di essa. L’immagine funge da allegoria: Anna può rispecchiarsi nell’uccellino perché, anche lei, è prigioniera. Prigioniera della sua stessa famiglia e della mentalità claustrale e claustrofila di cui è portatrice.
A liberarla dalla prigione è Lib, madre non di carne come Rosaleen, madre quest’ultima che dà e sottrae il cibo privandola della sua autonomia e, di conseguenza, decidendo della sua vita e della sua morte, ma madre elettiva, madre ‘simbolica’: dapprima le impone un’alimentazione forzata; poi brucia la casa in cui vive. Al comitato che l’aveva voluta ispettrice racconta che, in quell’incendio devastatore, la bambina ha trovato la morte. La bambina è invece viva e, ribattezzata Nan – nome che ha scelto lei stessa, autodeterminandosi e quindi affermando l’indipendenza dalla famiglia d’origine -, s’imbarca per l’Australia assieme ai suoi due nuovi genitori: William e Lib. Ben presto riprende, da sola, non forzata, a mangiare.
Le ragioni dell’espediente della rottura della quarta parete
Il prodigio ha inizio in uno studio cinematografico, con la rottura della quarta parete: l’attrice che interpreterà Kitty, sorella maggiore di Anna, avvisa il pubblico che la storia che questo si accinge a vedere sullo schermo è pura finzione e che, pertanto, è chiamato a sospendere l’incredulità per tutto il tempo della visione, salvo poi ripristinarla alla fine. Qual è il senso di tale disclaimer?
Il regista intende sollecitare chi guarda a sviluppare un’attenzione, quasi una vigilanza, rispetto alla sua stessa credulità. È proprio della natura umana fabbricare storie o credere a storie fabbricate da altri, ma qual è il confine tra l’abbandono al piacere di essere ‘ingannati’ da un racconto di fantasia e l’ottusità di una fede fanatica che opprime e occulta la verità, imbrigliando la vita di chi l’abbraccia? A ciascuno, la sua risposta.