Da Il Sesto Senso a Bussano alla Porta: così M. Night Shyamalan ha rinnovato il genere del thriller psicologico
Da Il Sesto Senso a Bussano alla porta: ecco come M. Night Shyamalan ha costruito la sua cifra stilistica e innovato il genere del thriller psicologico, tra mitologia, sci-fi e horror.
“Vedo la gente morta”, vi dice qualcosa? Non abbiamo dubbi che la risposta sia affermativa. Sicuramente Il Sesto Senso è un film cult – uno di quelli che chiunque ha visto almeno una volta nella vita – e, forse, è il più conosciuto tra quelli che portano la firma del regista indiano-statunitense M. Night Shyamalan.
Ma Shyamalan è un regista che pur mantenendo un core che strizza l’occhio di continuo al soprannaturale e alle sfumature dell’horror, si è poi affermato negli anni con altre pellicole che spaziavano dallo sci-fi (vedi, Signs) al thriller: su quest’ultimo aspetto, però, vogliamo soffermarci per mostrare in che modo il regista abbia dato un notevole contributo al genere, creandone uno quasi a sé stante. Potremmo definire il genere madre di Shyamalan il “thriller psicologico”, ma anche così non staremmo rappresentando tutte le sfumature – quelle che attingono all’ignoto, al mondo del magico – da cui le sue opere sono pienamente rappresentate.
Prima di tutto, facciamo un passo indietro: cos’è un thriller psicologico?
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Il padre del thriller, il signor Hitchcock, già il secolo scorso ci aveva mostrato quanto fascino potesse avere questo sottogenere, il thriller “psicologico”: pensiamo a Marnie o allo stesso Psycho, sono pellicole che attraverso la regia brillante del regista ci hanno aperto una finestra nella psiche dei personaggi, mostrandoci un nuovo modo di intendere il genere noir, insieme a un mix di nuove tensioni ed emozioni.
Il thriller psicologico è uno dei generi più di tendenza dell’ultimo ventennio: i titoli sono davvero molti, alcuni dei quali portano le firme di grandi autori contemporanei, tra cui Aronofsky (Il cigno nero), Scorsese (Shutter Island), Ford (Animali Notturni), Peele (Scappa – Get Out), Nolan (Inception) – e molti altri.
Ma se l’appeal di questo genere è così intenso, si potrebbe anche insinuare che il nostro qui protagonista M. Night Shyamalan abbia addirittura contribuito a rendere il thriller psicologico ancora più magnetico, se possibile.
In che modo? Con la sua cifra stilistica: è proprio questo, ciò che M. Night Shyamalan ha fatto. Ha preso un genere – quello del thriller psicologico – lo ha appreso, poi lo ha fatto suo e in seguito l’ha dominato, facendo sì che lo spettatore non possa non riconoscere dietro ogni sua pellicola la sua più autentica regia.
È un po’ come accade con Tarantino: in quanti possono dire di guardare uno dei nove film finora girati dal regista più “pulp” della storia del cinema senza riconoscerne immediatamente l’autore? E questo traguardo – perché di un traguardo si tratta – non è qualcosa di così semplice da raggiungere, soprattutto quando Hollywood divora senza pietà le menti degli autori più eclettici, sotto la morsa dei budget di produzione e dei trend di mercato (perché non dimentichiamolo, anche se qui si fabbricano i sogni, l’industria è pur sempre qualcosa di improntato al fatturato e alla logica del business).
Dunque a M. Night Shyamalan va riconosciuto il merito di aver creato una propria identità, una brand identity – potremmo dire – ben riconoscibile attraverso la regia, la struttura e gli elementi narrativi che caratterizzano la sua produzione cinematografica, soprattutto per quanto concerne il filone del thriller psicologico.
Dal Sesto Senso a Bussano alla porta: in che modo M. Night Shyamalan ha contribuito a innovare il thriller psicologico
E adesso veniamo al sodo, al dunque, di questa retrospettiva che vuole anche essere un omaggio a un regista ormai in attivo da un ventennio, che ha segnato più di una generazione.
Dopo i primissimi lavori (sapevate che è sua anche la sceneggiatura della comedy per famiglie Stuart Little?!), M. Night Shyamalan entra “timidamente” nel mondo delle grandi produzioni con Il Sesto Senso: nel cast, un indimenticabile Bruce Willis nei panni di uno psicologo che cerca di aiutare un bambino (il giovanissimo Haley Joel Osment) a riacquistare piena fiducia di sé. Il piccolo paziente, infatti, sostiene di essere tormentato dalla visione di fantasmi: già da questa pietra miliare, M. Night Shyamalan pone le basi del suo stile. Il film non solo è pieno di colpi di scena, tensione, suspense: lo spettatore non resta con il cliffhanger, la tensione viene smorzata, ma brutalmente. Il colpo di scena è sbalorditivo.
Gli ingredienti che hanno reso Il Sesto Senso un film cult – tanto da essergli valsi sei candidature agli Oscar (anche se, citando il personaggio di Sick Boy in Trainspotting di Danny Boyle si potrebbe in genere dire che “non significa un cazzo di niente”) – sono gli stessi che poi Shyamalan ha fatto suoi e ha costantemente riportato nei suoi film più noti, quei thriller psicologici “arricchiti”.
Tensione e suspense sono due elementi chiave nelle pellicole di Shyamalan e il regista è sicuramente bravo nel costruirle e offrirle allo spettatore senza troppa fretta, ma con la giusta lentezza e gradualità.
Queste due componenti così importanti del thriller psicologico sono però unite – nella produzione di Shyamalan – all’elemento del soprannaturale, dell’inspiegabile e del magico.
Se è vero che basta una mente criminale e una regia che ne mostra le motivazioni e le psicosi indagando a fondo nel personaggio a fare di un thriller uno del sottogenere psicologico, questo non è sufficiente per fare di un film uno che porti la firma di Shyamalan: non c’è film di Shyamalan senza un pizzico di magia, potremmo dire.
Prendiamo, ad esempio, Signs (2002): qui il regista ha voluto giocare – con un credibile Mel Gibson nei panni del pastore Graham Hess – con la fantascienza e ha confezionato un film che parla di alieni ma allo stesso tempo parla della ricerca di un uomo di una fede ormai perduta da tempo, tratta di spiritualità e non meno anche di predestinazione e fato.
L’elemento thriller è qui dato dalla sapiente costruzione di un’atmosfera inquieta e di mistero, ma anche dall’utilizzo dell’off-screen e dalle cosiddette inquadrature che anticipano azioni ed eventi futuri soffermandosi su particolari che altrimenti lo spettatore non noterebbe (fin dalle prime sequenze possiamo infatti notare come l’acqua sia un elemento importante per lo sviluppo della storia).
Molti altri sono i film che Shyamalan ha sviluppato su questa scia, dal meno riuscito The Village (siamo d’accordo?) all’esplorazione del tema mitologico con Lady in the Water, fino ad arrivare a due dei suoi maggiori successi, ovvero The Visit e Split.
Con The Visit, Shyamalan sorprende il pubblico delineando praticamente un vero e proprio horror, in stile Il Sesto Senso: eppure, proprio in questa pellicola la verità è ribaltata e dove più sembra esserci l’elemento del soprannaturale, maggiormente la spiegazione è data dal reale. La figura della nonna sembra quasi un fantasma uscito da The Others, ma il Male in The Visit ha totalmente le fattezze umane (in carne ed ossa).
Il successo di Split e cosa è accaduto dopo: perché Shyamalan non scrive più?
I meno clementi con la produzione di Shyamalan diranno che mai più il regista ha saputo eguagliare il tenore e la statura di film come Il Sesto Senso o Unbreakable.
Eppure, il successo di Split è sotto gli occhi di tutti: trattando il tema della salute mentale e della personalità multipla e borderline, mixandolo bene con il genere del thriller (qui “psicologico” all’apoteosi), Shyamalan ha reso la pellicola e il suo protagonista (forte dell’interpretazione di un camaleontico James McAvoy) a dir poco iconici.
Lo stesso entusiasmo non è stato riservato dalla critica per Glass, mentre uno dei suoi film più recenti, Old, è stato addirittura quasi demolito dall’opinione pubblica.
E dopo la visione dell’ultimo film sul grande schermo, quel Bussano alla Porta tratto dal libro La casa alla fine del mondo, la riflessione che viene spontanea è questa: sarà mica che Shyamalan ha smesso di scrivere e contestualmente di stupire?
È da considerare che il regista ha da sempre mostrato i suoi lati più deboli nelle sceneggiature: per esempio, tornando a Signs, molti erano “i buchi nell’acqua” che la narrazione presentava nel suo evolversi (quali erano le reali motivazioni degli alieni, perché erano così sensibili all’acqua?).
Eppure, la sensazione di una certa parte di pubblico – anche di una fetta di ammiratori del regista – è che le più recenti produzioni, quelle dove Shyamalan non ha messo la firma sulla storia, siano in parte l’inizio del declino.
Ad ogni modo, Bussano alla Porta è un film che si guarda, piacevolmente, tenuto in piedi dall’interpretazione di un illuminante Bautista, intriso di tematiche ancestrali e sociali che non cozzano le une alle altre, ma che lasciano piccoli spunti di riflessione a posteriori.
Si parla dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, ma Bussano alla Porta è anche una storia sul significato di famiglia, di umanità, sul sacrificio e sulla collettività. Una storia che ci fa riflettere sulla pericolosità che la deriva sociale improntata alla più totalizzante individualità può scatenare in una determinata situazione: chiusi come siamo nella nostra piccola bolla, chi di noi sacrificherebbe un proprio famigliare “solo” per salvare l’intera umanità?
In fondo, Shyamalan ci porta però un finale catartico: la speranza, che al mondo l’umano ci sia tuttora e, forse, in fondo non meritiamo ancora la Mezzanotte.