J-Horror: tra terrore ed emozioni, wet dead girls e lunghi capelli neri
Fantasmi di donne vendicative e in preda al rancore, chi sono le wet dead girls giapponesi? Scopriamo insieme le caratteristiche del J-Horror, il genere cinematografico made in Japan che ha dato vita a una nuova generazione di film horror dagli anni 2000 in poi - perché a volte il cinema non fabbrica sogni, ma incubi.
Il genere horror nel cinema è uno dei più amati, per le sue caratteristiche incisive e pregnanti, per la capacità di emozionare fino a far accapponare la pelle e per i grandi capolavori che negli anni sono entrati nella storia del cinema internazionale, da The Shining dell’acclamato Stanley Kubrick a Il Sesto Senso di M. Night Shyamalan. Se in terra italiana abbiamo avuto quali portabandiera del genere registi come Mario Bava e Dario Argento, quando si guarda all’Occidente ci si sposta inevitabile negli States, dove Hollywood non solo “fabbrica sogni”, ma anche veri e propri incubi. Tuttavia, l’horror è uno dei generi più apprezzati dal pubblico orientale, specialmente nel Sol Levante dove con il termine J-Horror viene indicato esplicitamente l’horror made in Japan – la “j” infatti allude all’aggettivo “japanese”. Il Giappone, in particolare, è stato d’ispirazione per una nuova generazione di film horror statunitensi che, a partire dagli anni 2000, hanno spaventato il pubblico delle sale cinematografiche occidentali, probabilmente senza che questo sapesse quale fosse l’origine di quelle storie così diverse dalle vicende di serial killer, di esorcismi e di splatter a cui avevamo fatto l’abitudine.
Quando nel 2002 negli Stati Uniti usciva The Ring, diretto da Gore Verbinski, una nuova ossessione si materializzava negli incubi del pubblico americano ed europeo: la figura di una donna fantasma dai lunghi capelli neri che le coprono il volto, in abito bianco, in cerca di vendetta – la white lady che oggi tutti conosciamo, che ebbe come capostipite statunitense la Samara Morgan di The Ring. Ma questa pellicola, così come il successivo franchise di Ju-On: The Grudge e i suoi diversi sequel e prequel – quest’anno in uscita su Netflix c’è anche la serie tv ad esso ispirata, Ju-On Origins – hanno come “padri” i film dei grandi registi di horror giapponesi: Hideo Nakata, Takashi Shimizu, Takashi Miike – per citarne alcuni.
J-Horror: dalle origini ai registi di oggi
Nel 1998 Hideo Nakata firmava la regia di Ringu, il film horror made in Japan da cui è stato tratto il già citato remake americano di Gore Verbinski. Ringu – il cui titolo originale era Ring, ma che è stato così tradotto per un errore di traduzione nei primi dvd del film – si basa sul racconto del libro omonimo di Koji Suzuki, uno dei massimi scrittori del genere horror nella letteratura giapponese. Ma a dire il vero, la storia di Sadako (la Samara del remake americano) è protagonista di altre pellicole, alcune dirette dallo stesso Hideo Nakata come sequel, altre realizzate in Corea del Sud, come The Ring Virus di Kim Dong-bin – tutte con lo stesso fil-rouge della cassetta maledetta che, una volta guardata, ti condanna a un destino di morte dopo sette giorni per opera del fantasma di Sadako.
Nel suo volume J-Horror, The Definitive Guide to The Ring, The Grudge and Beyond il critico David Kalat racconta le origini dell’horror giapponese e le profonde differenze che lo distanziano dallo stile degli horror occidentali. In Giappone la credenza negli spiriti è molto diffusa e le leggende al riguardo quasi non si contano più. Tra le più antiche di queste c’è quella narrata dallo scrittore Tsuruya Nanboku IV nel libro Ghost Story of Yotsuya, del 1825 – spesso messa in scena anche in alcuni spettacoli di Teatro Kabuki. La storia è quella di Yotsuya Kaidan, una giovane moglie che viene tradita dal marito, il quale la uccide per poter correre tra le braccia dell’amante. Avendo trovato la morte in circostanze violente e non trovando pace, il fantasma di Yotsuya non lascia il mondo dei vivi e cerca vendetta in preda a un grande sentimento di rancore. La storia di Yotsuya non solo ha ispirato oltre trenta versioni per il cinema, ma ancora oggi è alla base dei plots che si susseguono nel J-Horror.
Nel panorama contemporaneo dell’horror giapponese, tra gli autori più noti c’è il sopracitato Hideo Nakata che – oltre ad aver diretto persino una versione live action del manga Death Note dal nome L Change The World – è noto al primo posto per il suo Ringu, ma anche per la bellissima pellicola Dark Water. In Occidente, però, fama più grande è riservata a Takashi Shimizu che con la lunga serie su Ju-On (di cui si contano ad oggi 10 adattamenti cinematografici, l’ultimo dei quali è il film del 2020 diretto da Nicholas Pesce) ha prodotto una vera e propria saga horror con protagonisti i fantasmi rancorosi di Kayako e Toshio – ma che ha realizzato anche tantissimi altri titoli horror, come Tomie-Rebirth e Rabbit Horror-3D. Sul genere horror, ma con influenze splatter ed eccessi vari, Takashi Miike è un altro dei registi di punta del genere in Giappone, autore del cult Audition.
Le wet dead girls: il prototipo del fantasma giapponese
Se il critico Kalat nella sua analisi del genere parla di profonde differenze con l’horror occidentale, lo fa riferendosi in prima istanza alla figura del fantasma nipponico. Il J-Horror ha una forte componente emotiva e addirittura empatica, lontana dal realismo dei film sui serial killer e sulle intrusioni dell’home invasion statunitense: nel J-Horror è possibile addirittura comprendere il rancore che spinge lo spettro a cercare vendetta e a capirne le motivazioni dietro la mens rea.
Il prototipo del fantasma giapponese è ben definito: si tratta spesso di donne, o bambini, di persone “deboli” a cui viene tolta la vita in circostanze brutali. Lo spettro si presenta in abito bianco, con lunghi capelli neri ed è spesso legato all’elemento dell’acqua, da qui il soprannome di wet dead girls. Nel genere, infatti, il concetto del “bagnato” è di grande importanza e l’acqua è un elemento che ricorre spesso nelle storie, che si condensa nella metafora dell’essere soglia, un luogo in cui la vita vacilla ed è in bilico e causa, la maggior parte delle volte, di morte (come il pozzo in cui muore Sadako, la cisterna di Dark Water o la vasca da bagno in Ju-On). Un altro tratto peculiare del fantasma giapponese, chiamato anche yūrei, è quello dei lunghi capelli neri. Questo non è un aspetto estetico, ma un fatto culturale e antropologico: in Giappone, infatti, i capelli estremamente lunghi sono ritenuti “portatori di male”, tanto che lo stesso regista T. Shimizu ebbe a dire che “per i giapponesi c’è qualcosa di inconsciamente spaventoso in una chioma di capelli neri, alla sola vista di lunghi capelli neri sparsi su di un letto, scatta una paura che si radica dentro”.
Un altro carattere fondamentale dello yūrei giapponese è la forza che assume in quanto spettro. Donne che non hanno saputo difendersi dal proprio carnefici, da fantasmi trovano riscatto e vendetta acquisendo una forza sovraumana che invece è loro negata in una società, quella giapponese, che anzi spesso le emargina e le opprime sotto il peso del patriarcato. Questo è, probabilmente, uno dei motivi per cui il J-Horror è amato soprattutto dal pubblico femminile.
La componente emotiva del J-Horror
Nel carattere emozionale dell’horror giapponese torna ad avere importanza il concetto di wet: metaforicamente, si può dire che un film di questi sia zuppo di sentimenti ed emozioni, contrariamente agli horror occidentali da loro ritenuti “asciutti”. Eppure la mancanza di realismo nelle storyline degli horror giapponesi non è avvertita come tale da un popolo che crede molto nella spiritualità e a cui non piace esaltare la razionalità ma anzi ha una poetica precisa della morte, tanto che i giapponesi fin dall’infanzia vengono educati alla vita dopo la morte prendendone piena consapevolezza. La morte per la società giapponese non è qualcosa di lontano, di incomprensibile, ma è costantemente presente nell’oggi, è imminente. I fantasmi delle donne dei J-Horror riescono a diventare quasi delle “eroine” che si riscattano dai soprusi della società, legate tutte dal sentimento della sofferenza a cui il pubblico stesso non può in certi momenti fare a meno di partecipare.
Differenze tecniche: la regia nel J-Horror
Takashi Shimizu, uno dei più noti registi di J-Horror, afferma che le pause all’interno di una scena sono la chiave per scatenare la suspense necessaria. “Timing is very important” dice Shimizu, sottolineando la differenza tra “paura mentale” – quella ricercata dal regista nell’horror giapponese – ed effetto a sorpresa, magari arricchito da effetti speciali come in molti horror occidentali. La regia del J-Horror cerca di evocare il terrore attraverso un dosaggio scrupoloso di dubbio e paura, elementi che vanno mostrati con gradualità: quando si crede che alla fine di un corridoio vi sia lo spettro a spaventarci ecco che no, lo spettro non è lì ma è dietro il protagonista (“l’horror è l’arte del depistaggio”, secondo Shimizu).
Poco utilizzati anche i VFX, mentre ci si affida all’espressività facciale di attori che spesso hanno studiato tecniche teatrali specifiche e danza Butoh. Memorabile, in tal senso, la performance dell’attrice Takako Fuji che ha interpretato Kayako in più versioni di Ju-On, caricando il personaggio di emozioni intense, della rabbia e della tristezza necessarie a conferire una dimensione di umanità al rancoroso fantasma di Kayako Saeki.