Jacques Audiard: filmografia e poetica del regista dell’incomunicabilità
Un ritratto a tutto tondo di Jacques Audiard, la voce profetica e stentorea di una società multiculturale vittima delle proprie limitazioni e diversità.
Nato il 30 Aprile 1952 a Parigi e figlio del celebre sceneggiatore Michel, Jacques Audiard segue le orme del padre divenendo a sua volta talentuoso e prolifico sceneggiatore (più di venti i film portano la sua firma). Abbandonati gli studi in lettere in favore dell’attività di montatore, Audiard dedicherà infatti tutti i suoi primi anni nel mondo del cinema a scrivere sceneggiature, un’attività che si andrà però presto sovrapponendo alla carriera dell’ispirato regista che saprà affermarsi nel panorama internazionale e nello “spazio” breve di neanche dieci film.
Dall’esordio nel 1994 con Regarde les hommes tomber fino ad arrivare all’ultimo originale e apprezzatissimo western esistenzialista I Fratelli Sisters (debutto in lingua inglese per il regista francese), Jacques Audiard è riuscito a coniugare il talento registico e di scrittura a una riflessione acuta e sincera sulla società, declinata e analizzata attraverso l’integrazione delle diversità, la complessità dei flussi comunicativi, e la necessità di aderire ed entrare in qualche modo a far parte di un gruppo, di un contesto sociale che appare in primis ostile o resistente.
Affermatosi in patria così come a livello internazionale, Audiard è stato in grado nell’arco di circa vent’anni di filmografia (1994/2018) di fare suoi anche i premi più importanti della prestigiosa vetrina francese, ovvero il Festival di Cannes, portando a casa (in ordine di rilevanza) la Palma d’oro per Dheepan – Una nuova vita, il Grand Prix Speciale della Giuria per Il profeta e il Prix du scénario per Un héros très discret. Una carriera dunque tutta in ascesa e quasi profetica sulle orme di un cinema che riesce a essere estremamente contemporaneo e nello stesso tempo ancorato a degli stilemi classici, e in una drammaturgia quasi epica che insiste su una dimensione linguistica perennemente in bilico tra il realismo più crudo e un onirismo di matrice escapista. Ma qual è stata la scalata artistica di questo oramai osannato cineasta?
L’esordio alla regia di Jacques Audiard e il suo Un Héros Très Discret
Con la sua opera prima Regarde les hommes tomber, premio César come miglior film nel 1994 grazie anche al convincente duetto protagonista Mathieu Kassovitz e Jean-Louis Trintignant, Audiard getta le basi e l’attenzione sul Polar, un genere che sarà poi spesso ripreso spesso nelle sue opere successive, e che conferisce a molti film di questo talentuoso regista francese una doppia marcia di suspense ed esistenzialismo. In questo primo film e nella storia di un uomo che vuole vendicare un amico poliziotto caduto in coma, Audiard anticipa quelle che saranno le tematiche poi sviscerate nei film successivi, ovvero il condizionamento psicologico e sociale capace di sfociare in una ricerca quasi ossessiva dell’altro e/o di sé stessi, proiettati verso un nuovo sé non sempre in linea con quello immaginato.
Jacques Audiard: “Con I fratelli Sisters racconto un western che non c’era”
Ancora sulle orme del Polar con Un Héros Très Discret (Tratto dall’omonimo romanzo di Jean François Deniau), Audiard confeziona un’opera pirandelliana sulla capacità di reinventarsi e riattestarsi tramite un eroismo immaginario che diventa mezzo per aprirsi a nuove vite, farsi accettare dal mondo ostile. Mescolando sapientemente tempi, generi e registri, Un Héros Très Discret marca stretto ancora una volta quell’esistenzialismo caro al regista, quella ricerca e affermazione di un sé (che sia immaginifica ascesa eroica, reale crescita criminale o riscoperta del proprio corpo mutilato) nascosto o soffocato, potenzialmente vissuto all’interno di corpi che diventano limite fisico all’espressione emotiva e mentale; una tematica spesso ripresa e sempre evidente anche nella ricorrente presenza di elementi fisici nei titoli (labbra, cuore, ossa) inseriti a rappresentare proprio quelle barriere corporali che segnano metaforicamente la stessa limitazione ben più reale delle sbarre carcerarie de Il Profeta o delle distanze geografiche di Dheepan.
L’ascesa di Jacques Audiard: da Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore a Il profeta
Due film che, similmente, parlano d’incomunicabilità e di barriere linguistiche. E se il primo – Sulle mie labbra – mette a fuoco la controversa relazione tra una sordomuta e un ex carcerato finiti a sbarcare il lunario della vita fianco a fianco, Tutti i battiti del mio cuore (Remake di Rapsodia per un killer di Toback), ritrova invece il ritmo e la musicalità di un uomo che aveva smarrito il proprio sentire. Ancora due storie di ritrovata umanità e sensibilità sviscerate tra le pieghe di un mondo che appare sempre meno clemente e accondiscendente di come dovrebbe, invece, essere.
Film della conclamata maturità artistica, Il profeta incarna a livello registico per Audiard un punto di (s)volta, e quella stessa teoria di ascesa affrontata dal suo protagonista Malik (interpretato da un bravissimo Tahar Rahim) tra realismo, onirismo, e allucinazione declinati in una sorta di ascetismo narrativo e punteggiato dalle ottime musiche del sempre bravo Alexandre Desplat. Nella formazione criminale di questo antieroe divenuto eroe di sé stesso per puro spirito di sopravvivenza, il Malik de Il profeta scorge e trova la sua possibilità di riscatto attraverso la barriera di ferro delle inferriate carcerarie (immagini che ricorrono spesso, e in alternanza ai flash della vita fuori, nei momenti di escapismo mentale del protagonista), e in quello spiraglio di luce che solo trapela nell’oscurità della reclusione, il giovane magrebino riuscirà a fare suoi l’ascesa e quel cammino di appartenenza che nel bene o nel male lo consacreranno a nuova vita.
Nel percorso di crescita lungo sei anni e nella presa di coscienza dei dogmi comunicativi dell’ambiente, di apprendimento delle lingue e delle regole che muovono quell’universo carcerario violento e drammatico fatto di soprusi e pressioni psicologiche, Malik affinerà quegli strumenti in grado di mutarlo da vittima in potenziale carnefice, e quindi, in senso lato, da perdente in vincente. Un’opera realissima eppure macchiata di un onirismo essenziale alla drammaturgia dell’ascesa, necessario a sancire il divario tra realtà e potenzialità, dramma concreto e suggestione di fuga. Con Il profeta, Audiard getta le basi per legare inscindibilmente il suo nome a quello di un regista sempre più influente e presente all’interno del panorama internazionale delle voci imponenti del cinema.
La regia di Un sapore di Ruggine e ossa e Deephan
Forse uno dei film a oggi più struggenti del cineasta francese, Un sapore di ruggine e ossa insiste su un sentimentalismo mai melenso che fa della distanza e della limitazione fisica il suo punto di forza. Costretta a una vita mutilata, la bellissima Stéphanie di Marion Cotillard trova nella lotta e nell’accettazione della sua stessa condizione lo spiraglio per andare oltre e ritrovare il contatto con l’altro, ma soprattutto con sé stessa. Ancora una storia di ascesa e riscoperta, di affinità e contrasti, che fa della limitazione fisica la sua risorsa più grande, trasformando l’amarezza concettuale di Un sapore di ruggine e ossa nella radicalità di un affetto ricercato e vissuto oltre le barriere architettoniche del mondo e oltre lo spauracchio della diversità.
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Opera della consacrazione e Palma d’oro al Festival di Cannes 2015, Dheepan è ancora una volta racconto sulla ricerca di una nuova vita, riaffermazione altra e altrove della propria esistenza, fuga dall’orrore noto (la guerra civile in Sri Lanka) verso un universo ancora ignoto. Con lo stesso stile a metà tra realismo e onirismo, tra la contestualizzazione impellente delle tematiche della guerra e dell’emigrazione forzata e la sospensione rarefatta di un esistenzialismo sempre presente, con Dheepan, Audiard trova e racconta la sua storia più lineare e simbolica di fuga e sacrificio, inscritta nel valore umano di un sapersi reinventare se spronati da circostanze pressanti.
Da uomo in fuga dalla sua terra a un ambulante smarrito con lucine intermittenti calzate in testa, prestato suo malgrado a una terra altrui e “straniera”, la storia di Dheepan marca stretto lo scarto esistente e l’inconciliabilità tra realtà e proiezione, necessità e aspirazione, nella ricerca nuova e disperata di una mano conciliante e amorevole da far scivolare tra i capelli e sul cuore. Perché la nuova vita tanto agognata si rivelerà infine macchiata dagli stessi spari, dalla stessa violenza e dallo stesso sangue della vita lasciata alle spalle, in una sorta di circolo vizioso e di frastuono esistenziali sempre difficili da eludere, un virtuosismo esistenziale secondo cui una vita macchiata resta per sempre tale, all’interno di un iniquo disegno di corsi e ricorsi storici difficili, anche se non impossibili, da mutare. Dunque, il dramma e la meraviglia della vita in un’unica storia.
Il debutto in lingua inglese con I fratelli Sisters e la fuga nel Western romantico e postmoderno
In un western atipico e “postmoderno” che scompone e ricompone gli elementi di genere per farne racconto ironico, romantico e scanzonato, divertente e grottesco su un improbabile duo d’incalliti bounty killer ma dal cuore tenero, i due fratelli Eli e Charlie Sisters (rispettivamente interpretati da John C. Reilly e Joaquin Phoenix), Jacques Audiard vira con The Sisters Brothers (gioco di parole che traduce come i fratelli sorelle) su un film totalmente diverso dai toni precedenti, mantenendo però intatti valori e tematiche della sua filmografia. Una ballata struggente sull’amicizia, sulla fratellanza e sul sapersi spalleggiare e fronteggiare anche immersi negli anfratti boschivi dell’Oregon del 1851, così come nella vita, con in mente il fine simbolico di trovare la “formula” per rivoluzionare in meglio la propria esistenza. Un’altra storia di rinascita e riscatto che viaggia lungo la parodia e il sarcasmo di un terzetto al maschile (anzi quartetto: John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed) vivace, funzionante e quanto mai originale.
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Da chi non sente a chi non parla, passando per chi è confinato entro propri limiti materiali (la vita carceraria) o fisici (la disabilità), Audiard scrittore e regista ha portato alla luce e analizzato negli aspetti più intrinsechi la capacità di andare oltre una incomunicabilità reale o formale. I protagonisti delle sue storie, da Malik a Stéphanie fino a Dheepan e perfino ai fratelli Sisters, sono tutti eroi che affrontano la complessità di vite spese nel superamento dei loro limiti e nello slancio della possibile costituzione di nuove vite. Storie e personaggi proiettati dunque fino e oltre la sfera del loro potenziale, spronati a modificare o superare le sorti di un destino all’apparenza ostile o già incasellato in schemi predeterminati. La voce contemporanea di un cinema capace dunque di guardare oltre ma senza perdere di vista il contingente e il presente, tempi morali e materiali costantemente ancorati alle problematiche e alle avversità di società fondamentalmente inique e ghettizzanti, di norma incapaci di guardare alla diversità come a un arricchimento e non come a qualcosa da cui fuggire e di cui avere paura. Società dove, citando Sartre, “L’inferno sono gli altri”.