James Cameron e le sue donne ribelli, dai film sci-fi a Titanic
Un excursus della filmografia James Cameron con particolare attenzione al suo approccio al genere fantascientifico e alla centralità delle sue (tante) eroine femminili.
Chissà come e cosa sarebbe il cinema oggi, se non avesse mai conosciuto la fantascienza di James Cameron. È, fortunatamente, un quadro molto distante dalla realtà, ma quando l’oggetto d’esame è una filmografia coerente, lucida e allineata come quella del cineasta canadese (e pochissime altre, anche nel genere sci-fi) diventa imprescindibile, nonché conveniente, provare a capire le interrelazioni fra l’opera nel suo intero e il contesto in cui la vi si ritrova concepita. Quando si ha a che fare con un lavoro come quello di Cameron, che vale complessivamente 5,2 miliardi di dollari se si parla di incassi al botteghino (di cui oltre 3 solo negli Stati Uniti), non basta più giudicare una sua opera, scriverne, apprezzarla, consigliarla. È evidente che l’esplorazione della filmografia di questo regista imponga di prendere in considerazione il fattore fondamentale, spesso trascurato, della reazione di massa alla sua opera, ossia la risposta del pubblico, la comunicazione fra l’autore e lo spettatore. Come si può “parlare” per immagini a un pubblico che non si conosce e che, per di più, si presenta come un mosaico di personalità, sentimenti, idee, background culturali differenti, con miliardi di varianti in tutto il mondo e in tutte le epoche?
James Cameron, un regista che intuisce i desideri del pubblico
Ecco come James Cameron divenne il regista di Aliens: Scontro Finale
L’essenza del cinema di James Cameron parte dall’assunto che realizzare un film equivale sostanzialmente all’impiego di un linguaggio, solo più articolato e più costoso di quello verbale, ed è l’esempio più concreto di come intuire i desideri e le esigenze del pubblico sia una priorità che ha del riprovevole e del superficiale solo per chi non vede connessione fra i primi (i desideri) e le seconde (le esigenze). James Cameron, come probabilmente solo Steven Spielberg nei tempi più recenti, lo fa: e, all’improvviso, non pare più una coincidenza che entrambi i registi, spesso differenti l’uno dall’altro, abbiano trovato nel genere sci-fi terreno fertile di scoperte e conquiste per captare i timori, le ambizioni, le inclinazioni, le curiosità di chi è al di là dello schermo, toccando nel profondo le sue corde emotive. Cameron, in particolare, conferisce importanza focale alla figura femminile, facendone uno strumento essenziale per sciogliere i nodi dei suoi enigmi e delle sue grandi missioni. E dunque, a questo punto, si può sollevare un’altra questione: cosa sarebbe il cinema di James Cameron se fosse nato al giorno d’oggi? Quale forma avrebbe preso, e quali strade avrebbe intrapreso, se il cinema di questo regista fosse fiorito in mezzo ai tumulti socio-politici che vedono proprio la donna chiamata a rivedere la correlazione fra il suo ruolo nella società e la sua identità?
Lo xenomorfo secondo James Cameron
Si può ipotizzare qualcosa al riguardo, sebbene in piccolo, analizzando la relazione che intercorre fra Alien, primo capitolo della saga diretto da Ridley Scott nel 1979, e il seguente capitolo, Aliens – Scontro finale girato da Cameron nel 1986. La Sigourney Weaver che presta corpo e voce a Ellen Ripley, indelebile icona del cinema fantascientifico dei primi anni ’80, è il modello perfetto per interpretare gli sguardi profondamente discordi dei due registi, di cui è facile notare le divergenze anche solo a partire dal livello puramente registico dei due film. Eppure, è assai più indicativo che l’unica interruzione del lavoro di sceneggiatura ad opera di Dan O’Bannon e Ronald Shusett, fatta eccezione per il quarto capitolo, sia proprio il secondo, che vanta l’apporto di Cameron anche come sceneggiatore del film. Indicativo perché il tema della maternità, tanto caro al regista (come vedremo), subisce una svolta radicale e la maternità stessa, da oscena e incontrollabile, diventa in Aliens un richiamo naturale per la donna. Come consultabile nella director’s cut del film, Ripley ha perso una figlia durante una lunga fase di ipersonno, ma ha la possibilità di riscattarsi e diventare nuovamente madre quando incontra la piccola Newt, a sua volta orfana. Il rapporto fra madre e figlia è, per l’autore, prioritario a tal punto da moltiplicare la minaccia aliena in più xenomorfi, scelta atta a suggerire che anche il nemico alieno è una madre.
Le donne nel cinema di James Cameron: non basta essere pari agli uomini, bisogna essere migliori!
Si tratta di un essere che con la protagonista condivide la sua natura femminina ma che, contrariamente alla protagonista, possiede incredibili capacità riproduttive. Per essere donna, l’eroina del primo film della tetralogia doveva essere al pari degli uomini dell’equipaggio, ma non bastava: doveva essere meglio degli uomini per potersi confrontare con una creatura che rende ostile l’ambiente asettico della Nostromo, ambiente poi agli antipodi di quel gigantesco utero grondante e umido che è la nave su cui vengono rinvenute le prime uova di facehugger. Tutto, in Alien (la fisionomia della creatura, le modalità con cui attacca e si riproduce), sembra suggerire la paura della sessualità e quindi, consequenzialmente, della maternità. L’emancipazione di cui Ripley era già fervente simbolo cinematografico, in piena epoca femminista, è in Aliens accompagnata da un istinto di maternità che supera l’ideologia. Ridley Scott, nel suo incubo di maternità, considerava necessario attribuire alla donna caratteristiche virili e psicologiche per permetterle di eludere e abbattere il nemico; James Cameron sceglie, invece, di sottolineare le differenze fra i due sessi tornando alle radici, alla natura (quanto più possibile, nello spazio siderale), e di conciliare nuovamente l’essere donna con l’essere madre: la naturale spinta alla protezione della bambina da sola basta per rievocare, nella protagonista, l’unica forza sovrumana occorrente per la sconfitta di un’altra madre ugualmente propensa alla conservazione.
Terminator: il potere creazionale della donna contro la forza devastatrice della guerra
Terminator (1984, un anno prima di Aliens) e Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) hanno rispettivamente iniziato e continuato lo stesso tipo di discorso spingendo ancor di più sul pedale della fantascienza, grazie al distopico futuro di robot e viaggi temporali in cui sono ambientate le vicende. Sia nel primo che nel secondo capitolo, infatti, la protagonista principale è Sarah Connor, interpretata da Linda Hamilton, parzialmente modellata sullo stampo della Ripley di Aliens perché, come Ripley, guidata dal suo istinto di maternità per portare a termine una battaglia colossale. Arnold Schwarzenegger è il “Terminator” che insegue Sarah per assassinarla, e non per caso: già simbolo del cinema supermuscolare anni ottanta ed esponente di una certa cultura “machista” hollywoodiana sopravvissuta fino ai tempi recenti, l’attore e ciò che rappresenta diviene per Cameron il pretesto perfetto per attribuire, nel suo sci-fi, a una certa mascolinità una natura negativa. Se lo scontro fra le due madri di Aliens era finalizzato a dar vita a una lotta naturale e per la natura stessa (la propria prole, dunque la propria specie), in Terminator la battaglia fra la donna-futura madre Sarah e l’uomo-Terminator è esplicativa per evidenziare la vittoria della creazione naturale sulla creazione artificiale, quindi la vittoria del potere femminile della creazione sulla furia della distruzione, di cui qui l’uomo è portatore (eccetto Kyle, che aiuta Sarah). Infatti il piccolo John nascerà comunque, nonostante la predominanza fisica e i poteri sovrumani del Terminator, e porterà avanti la Resistenza che quest’ultimo avrebbe dovuto fermare.
James Cameron e la donna come vincolo essenziale con la natura e la libertà
In The Abyss il potere generatore è affidato non più alla donna, bensì all’acqua, elemento naturale con cui la creazione e la femminilità vengono identificate: il punto focale del film del 1989 consiste non tanto nella scoperta della civiltà aliena che vive immersa sott’acqua, quanto più nella rivelazione di loro intenti pacifici che soverchiano il timore primigenio legato agli abissi marini e portato in scena da film come Jaws – o, perché no, Piranha Paura, di un James Cameron ancora agli esordi – che nell’oceano individuano la morte anziché la vita.
La centralità della femminilità e la contrapposizione fra la creazione e la distruzione fa da perno anche nel più recente Avatar, ultima opera del regista: tacciato di superficialità a causa di alcune svolte narrative, Avatar è invece l’esempio lampante di come la filosofia di un autore possa rimanere aderente e calzante con quanto ribadito in trent’anni di carriera pur variando l’involucro del genere, della messinscena e delle tecnologie che Cameron ha messo a punto nel giro di quattordici anni. L’intuizione cinematografica delle sinapsi con cui l’aliena Neytiri, indigena simbolo del creato, invita il protagonista Jake Sully a ristabilire il contatto perduto con la natura è, ancora una volta, metafora perfetta del sempre più urgente bisogno di distaccarsi da una civiltà fallimentare e pericolosa per recuperare la perduta empatia con la natura. In questa congiuntura, la donna assume nuovamente il ruolo di medium principale.
La libertà negata in Titanic
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E sarebbe davvero errato escludere da questo tipo di analisi Titanic, realizzato ben quattordici anni prima e concepito nel lontano 1985 (a seguito della spedizione di Robert Ballard, che rinvenne il relitto dell’imbarcazione). Nella borghesia novecentesca, che di continuo priva Rose della propria libertà, Cameron ravvede lo stesso tipo di trappola e il rischio di smarrire per sempre il legame con gli istinti e le predisposizioni naturali. Se, stavolta, il vincolo con la passione e la natura è attribuito alla relazione con lo squattrinato Jack, quindi non più a una donna, è anche vero che permane la critica a quella serie di codici tradizionalisti e consequenzialmente perbenisti, in totale antitesi con le pulsioni più spontanee, che rischiano di annientare i legami sociali autentici e più “candidi”. È una critica che permane attraverso figure maschili (il fidanzato di Rose) e/o maschiliste: le donne attorno a Rose, le peggiori promotrici della “faccia sociale” obbligatoria, sono tutte vincolate a una forma mentis monolitica e ancorata a un bagaglio cattolico che preserva virtù e morigeratezza. La ribellione di Rose è il definitivo rifiuto di una gabbia che censura le emozioni e l’erotismo, quindi la natura stessa, e rappresenta la fresca spinta verso un mondo puro in esatta opposizione alla presunta “purezza” esposta e promossa dalla borghesia puritana.
Insomma, tornando alla domanda di prima: cosa sarebbe il cinema di James Cameron se fosse nato oggi? Quale forma potrebbe avere, o potrebbe in futuro assumere, in mezzo ai trambusti che vedono proprio la donna impegnata nella rivoluzione del proprio ruolo sociale e della correlazione fra questo e la propria identità? Ci sarebbe ancora spazio per un’eroina che non potrebbe sconfiggere il nemico se non avvalendosi della resistenza e dalla pertinacia datole solo dal proprio essere madre? Ci sarebbe spazio per un’eroina che sceglie di sfidare la morte per un uomo?