Jean Seberg: omaggio alla semidea della Nouvelle Vague
Jean Seberg, una semidea così gracilmente statica da provocare terremoti tutti suoi, non fu dimenticata ma mai ricordata come si dovrebbe. Sospesa tra la notorietà e l’oblio, tra la bravura e un’esplicita reciprocità biografica e filmica, fra colpa e battaglie. Attrice inenarrabile, attivista perseguitata, elogiata da Godard e fotografata da Garrel in uno dei suoi docu-testamenti. Con il suo immutato look da garçonne, il suo temperamento estremo e indomabile , divorziò dal silenzio e sposò la sua non vita, sempre in antitesi, agli antipodi della modernità.
Buongiorno tristezza (1958) di Otto Preminger, una delle sue prime apparizioni degne di nota, narra la disonorevole odissea di una subdola ape operaia, Cecilia, in eterna faida con la regina, o meglio le due regine: le donne di suo padre, le tiranne del suo alveare. Costoro, in quanto seduttrici di natura, chi più chi meno coscientemente, capovolgono inevitabilmente le sue abitudini e demarcano le loro posizioni contravvenendo a quella laida e controversa condotta alla quale Cecilia non rinunciò mai. Le partner si susseguono e la sua vita prende inevitabilmente la direzione paterna, poiché egli cambia atteggiamento secondo chi lo affianca. Lei cerca di combatterle, enfatizzando le sue scelte e i suoi spazi. Prova un grande odio verso se stessa e verso gli altri, ma non riesce a declinare nessuno dei due. È insito, un intercedere che la porta lentamente in bilico tra sedizione e autolesionismo.
Jean Seberg – omaggio alla semidea della Nouvelle Vague
Nel 1960 la sua vita cambierà rotta. Fino all’ultimo respiro, di Godard, è anti-cinema, strattonato dalla volontà di illusione e dalla volontà di vedere. Il regista non teme di svelare l’artefatto, le finzioni: per la prima volta si può e si deve guardare in camera. Gioca con le segnaletiche e le strutture in un moto di riappropriazione di una indagine che andasse al limite tra un’identificazione diegetica dello spettatore e una intradiegetica appartenente agli attori. La narrazione sembra essere impedita da una realizzazione differita e svelata nei suoi meccanismi e non solo, Godard usa i suoi attori come finestre che svelano e riproducono, manipolano lo scorrimento, con tutto il desiderio di anticlassicismo che pervadeva l’arte degli anni ’60. Un capolavoro senza grandi storie, senza grandi nomi, ma un con un potere discorsivo ed estetico ineguagliabile. La Seberg incarna Patricia Franchini, una studentessa americana che vive a Parigi, la quale si trova improvvisamente a soffrire le disavventure di Michel Poiccard(Jean-Paul Belmondo), delinquente e latitante emotivo.
Non so se sono infelice perché non sono libera o se non sono libera perché sono infelice. Questa è la chiave, la marcia che risolve le dissonanze grammaticali della sceneggiatura, un alfabeto poetico e puro.
Nel 1972, Aberto Bevilacqua punta lo sguardo su lei e la scrittura per il suo film-romanzo, Questa specie di amore. Esso è pieno di libertà, coniugali e sentimentali. La pellicola si cela e si mostra come in un crescendo rossiniano: desidera gli sguardi, gli sgomenti, gli applausi, ma non appena l’estasi sopraggiunge, la frenesia viene smorzata, si recide con timidezza. Marito e moglie, Seberg e Ugo Tognazzi, sono invasi dall’inconsistente paralisi del loro rapporto, basato sulla promiscuità extra coniugale che non trova alcuno slancio, alcuna possibilità, né al di fuori né all’interno del loro matrimonio, nemmeno di natura filiale.
Il film è diviso in due cieli, due specchi d’ombra che si rincorrono legati da lui, in un limbo: il suo futuro e il suo passato. Il presente non è contemplato come uno stato temporale: qui sopraggiunge l’incognita dell’erlebnis, il presente è semplicemente un’esperienza interiore, consapevole, non scorre ma si misura negli stati di coscienza, nel cambiare idea, nel vivere un amore maturo, leben è vivere il presente.
Federico (Ugo Tognazzi) si ritrova a essere ipocrita, immorale ed anche un vigliacco per non aver rispettato la filosofia coniugale del ciascuno faccia la vita propria, compromettendo l’integrità della loro libertà predeterminata, lasciando che fosse solo lei a sbagliare. Lui non è riuscito mai a rispettare questa etica libertina, lei si.
Morricone sembra rifarsi al Suonatore Jones , le sue note presagiscono qualcosa, stanno lì in agguato. Giovanna (Jean Seberg) è il nervo scoperto della coppia, una crisi di nervi dopo l’altra, scatta per qualsiasi motivo anche quando esso viene a mancare. Non accetta la fedeltà del marito, non concepisce il suo passato, suo padre, la sua lascività, la sua leggerezza.
Il rapporto che lega Federico a suo padre ricorda per certi versi quello di Enea ad Anchise, Federico porta sulle spalle da una vita suo padre, anche se un po’ se ne vergogna, lo ripudia, non può farne a meno.
Padre, se anche tu non fossi il mio e fossi a me estraneo, per te stesso egualmente t’amerei. No, non è Virgilio è Camillo Sbarbaro. Lui continua a tenerlo addosso. Federico, è tutto ciò che il padre voleva evitare di essere, egli è inserito nell’alta borghesia tra frac e villeggiatura, il padre ha sangue ben diverso, poiché simboleggia un vecchio eroe della retroguardia dimenticato, ma la sua storia si rinvigorisce quando urla a una folla affranta la storia che serpeggiava e che adombrava l’Italia e Parma in quel caso nel ’22, un comizio rosso che vuole ritrovare la spendibilità e la sua credibilità. Bevilacqua rievoca nella storia uno spasmo di resistenza partigiana un po’ scorretta un po’ strozzata.
Ultima ricordanza non è una pellicola, o meglio lo è ma viene soppressa in tutto il senso linguistico. Les Hautes Solitudes di Philippe Garrel, del 1975, è un documentario empirico bianco e nero senza sonoro che riprende quattro volti di grande impatto: Nico, anima dei Velvet Underground, Laurent Terzieff, Jean Seberg e Tina Aumont. (Jean Seberg e Nico, curiosa coincidenza, nate entrambe nel 1938). Un film liberamente ispirato all’Anticristo di Nietzsche. È stato registrato a casa della Seberg a Parigi, con Nico e Tina Aumont. Ritratti di pseudo dive in una nuvola granulosa e materiale, che esprimono con la mimesi e il filtraggio torbido, le loro solitudini. Il suono comunica anche quando è assente, continua a essere parte del film pur mancando. Coloro che abitano un mondo dietro un mondo si esauriscono, ben consapevoli della diversità della loro esistenza. Un lavoro impenetrabile, sfugge poiché ignoriamo ciò che trasmette, una sequenza di parole impronunciate, di dolori riemersi, come le scene che sono visivamente a brandelli, sconfitte in primis da una struttura controvertibile, dalle attrici/attore che ruminano e vengono contemplati senza poter essere uditi, un’esperienza visiva che ha del singolare. Il suo volto era già segnato, non dal tempo, ma da una decisione. Jean Seberg fu implicitamente sedotta dal progressismo, dalle lotte, dietro e avanti la macchina da presa. E come ogni donna e uomo che conduce e celebra la propria vita in onore degli altri, dei diritti, non può che ottenere un’esistenza complessa e inquieta. Tanti doni, tante follie, tanti matrimoni tramontati: fu madre di due figli tra cui Nina, avuta dal secondo marito, il romanziere russo Romain Gary, che nacque prematuramente il 23 agosto e che morì due giorni dopo. La sua fu una persecuzione emotiva, un dovere di rivalsa inaccessibile e inattuabile. Tant’è che ogni anno, in occasione dell’anniversario della perdita della bambina, la Seberg tentò il suicidio. Riuscendoci il 30 agosto, 1979. Fu ritrovata in un parcheggio di Parigi solo undici giorni dopo la sua morte, completamente nuda.
Come non ogni omicida è un assassino, non ogni suicida commette peccato mortale. (John Donne)