Editoriale | Joker e la filosofia del riso tra inadeguatezza e sovversione

La filosofia del riso e alla figura del clown tra alienazione, sovversione e inadeguatezza.

Attratti dall’altisonante nome di Joaquin Phoenix e dalla maschera della nemesi di Batman, chiunque ha avuto la tentazione di precipitarsi nelle sale cinematografiche per scrutare il volto e le ragioni del nuovo Joker che, pare chiaro, non ha nulla a che spartire con i vari cinecomics DC. Todd Philips infatti usa il canovaccio dei fumetti per dare vita a una pellicola che parla di società, politica, malattia mentale e alienazione e lo fa attraverso l’arma sovversiva del riso, usando a suo favore la trasfigurazione più atavica dell’essere umano: il clown.

Il pagliaccio è colui infatti che, da tempo immemore, ha lo scopo di divertire le masse mettendo a nudo tutto ciò che l’uomo razionale, l’uomo illuminato, non potrebbe né dovrebbe essere. Il clown così ha il viso truccato che gli deforma il volto – obbligandolo a indossare un sorriso anche quando il suo vero stato d’animo convoglierebbe gli angoli della sua bocca verso il basso -, indossa abiti vistosi e buffi, enormi scarpe e capelli inusualmente dipinti. Egli sa suscitare ilarità semplicemente grazie alla sua inadeguatezza al mondo e finché si occulta dietro una maschera ha il potere di ironizzare sulla realtà, di dire la propria, di essere ciò che è.

Clown: identikit dell’uomo più vero

joker, cinematographe.it

In parte differente è la filosofia che attraversa la mente di Arthur Fleck, il quale si immedesima nella maschera del clown senza discernere tra realtà e finzione, fino ad assorbire totalmente la maschera più vera dell’essere umano, la più sovversiva, raccapricciante, autentica: quella di chi ha eliminato i filtri della vita sociale, di chi “ride bene chi ride ultimo”.
E nell’attivare tale processo scaturisce empatia col pubblico e ci riesce perché lui non è il cattivo ma solo un povero disgraziato che si guadagna da vivere facendo l’artista, che vorrebbe far ridere ma spesso finisce per essere frainteso (come la signora sull’autobus che gli intima di non infastidire il figlio) o addirittura malmenato, derubato, ingannato e deriso. In quell’atto di alienazione perenne Joker è il volto di tutti noi, di chi ha un sogno e non riesce a realizzarlo, di chi vorrebbe accettazione e riceve in cambio solo disprezzo, di chi vorrebbe comprensione e invece ha solo un pugno in faccia.

Il Joker di Joaquin Phoenix e la sua risata

joker, cinematographe

E se il protagonista interpretato da Joaquin Phoenix si fa portavoce di una follia che ignora di possedere, ciò che si impone nelle nostre orecchie, nei nostri occhi e nella nostra mente è la sua risata. Storicamente intesa come un ghigno malefico essa diviene irruenta e incontrollata espressione di un disturbo psichiatrico mai del tutto spiegato. Una specie di sindrome di Tourette in cui lo sfociare della risata risulta una liberazione involontaria in grado di allentare la tensione nei momenti di maggiore stress. Ma d’altro canto cos’è il riso se non questo? Un suono che irrompe nel bel mezzo di una discussione, che sdrammatizza allentando l’ansia, che fa pensare alla felicità e attira l’attenzione.
In questa eccezione il riso è anche un’arma di schernimento che vediamo essere usata dapprima per ferire Arthur (come i tre che iniziano a deriderlo in metro) e poi da Arthur stesso che, compiuta la sua evoluzione in Joker, usa il riso per mascherare l’odio che cova dentro e che lascia improvvisamente fluire.

Tuttavia il protagonista della pellicola di Todd Philips fa un percorso ben definito prima di concludere la sua trasformazione. Egli professa di usare la maschera del clown per portare gioia, ma in fondo il fatto di vestire tali panni gli permette di dimenticare il suo status di diversità. Dietro il cerone e la parrucca Arthur Fleck non è un cittadino orfano di padre affetto da una malattia mentale e costretto a fare affidamento ai sussidi statali per curarsi, ma un essere umano come tutti gli altri, deriso da qualche ragazzino per il suo aspetto clownesco, ma nulla più. Il problema è che dietro a quell’armatura carnevalesca tiene a bada una smodata fame di dignità, di potere e ricerca d’identità, che finirà per avere.

Impossibile, giunti a questo punto, non ricordare le parole di Umberto Eco nel celebre romanzo Il nome della rosa, nel passo inerente il secondo libro della Poetica di Aristotele: “Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. […] Qui si ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte […] Questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura […] è sapienza. Il riso è anche deformazione del volto, deformazione che nel film viene esasperata dalla mania di Arthur di portare gli angoli della bocca verso gli occhi, quasi a volersi strappare la pelle, a tatuarsi il sorriso sul volto al di là del trucco e in maniera meno brutale del Joker di Heath Ledger.

Joker: “Ride bene chi ride ultimo” 

joker, cinematographe.it

 

Egli si fa portatore della fantasia, dell’irrazionalità, della ribellione e consacra la sua anima di Joker nel momento in cui smette di essere dominato dalle convenzioni sociali, nell’istante in cui induce le masse, attraverso un gesto di violenza, ad agire e lottare. Da quel momento la sua risata muta, la tensione rallenta. Ciò che nella sua fisicità era ritrosia e inadeguatezza diventa coraggio, evasione, forza.

Al pari del comico che ha il privilegio di guardare la realtà da un altro punto di vista e farne un’arguta satira, così Joker mette a fuoco la sua condizione di reietto e si convince che, se è fallita la sua missione di portare gioia del mondo, non fallirà quella di portare giustizia. Fingendosi un allegro burlone egli innesca la miccia per ribaltare il sistema. E allora il suo sorriso è l’apice della rappresentazione grafica del paradosso: felice e innocuo fuori, violento e frustrato dentro. Così il suo riso diviene ghigno malefico, arma per ridicolizzare gli altri e non più strumento per essere sbeffeggiati.

In questo scenario certamente si inserisce la malattia mentale e quindi la paura nei confronti del diverso, l’alienazione insita nello status in cui Arthur Fleck si muove. C’è un’accesa relazione tra le azioni che compie e la sua salute psichica, ma il pubblico sceglie deliberatamente di non vederla perché, giunto ancora a metà del film, si è ormai convinto delle ragioni che animano il protagonista e in quel sorriso svampito e finto ha colto tutte le maschere che la società lo costringe a indossare, tutto l’inferno in cui vive e dal quale meriterebbe di fuggire, tutto il dolore chiuso dentro al petto.
In quella figura così grottesca lo spettatore non riesce a vedere il cattivo, ma l’essenza arcaica dell’essere umano; di chi, trincerandosi dietro una maschera, prova a farsi accettare dal mondo.