Joker – Folie à deux NON è un flop: 5 motivi per cui Francis Ford Coppola ha ragione
Il sequel di Joker non sta piacendo quasi a nessuno: eppure, è un film con numerosi elementi d’interesse. In sua difesa è sceso in campo persino Francis Ford Coppola, a cui, non per deferenza, dobbiamo dare ragione. Ecco allora i nostri cinque motivi per cui la folie à deux di Joaquin Phoenix e Lady Gaga non è del tutto da buttare. Al contrario, merita una visione attenta.
Critica e pubblico non sono stati teneri con il sequel di Joker: tra chi lo ha ritenuto non all’altezza del capitolo precedente e ha lamentato le aspettative deluse e chi è rimasto perplesso per la scelta di adottare il musical come codice espressivo, il film di Todd Philips è stato accolto da una generale freddezza, se non addirittura deriso o squalificato. Tuttavia, tra i suoi estimatori, può vantare nientemeno che Francis Ford Coppola che, in un post di un paio di giorni fa, ha elogiato il cinema di Philips definendolo «always one step ahead of the audience», “sempre un passo avanti rispetto al suo pubblico”.
Apologia neanche troppo velata di un lavoro, l’atto conclusivo di Joker, ingiustamente massacrato o, nel migliore dei casi, liquidato forse troppo in fretta. Si tratta, in verità, di un’opera che rifugge dalle consolazioni e restituisce una riflessione spietata sui nostri autoinganni: l’ansia patologizzante (e medicalizzante) con cui cerchiamo di controllare il reale, la spettacolarizzazione tanto del Bene – la ‘Giustizia’ e i suoi imperfetti vicari terreni – quanto del Male, il rifiuto in sé e negli altri di quella desolata miseria che tutti siamo, una miseria radicalmente esposta alla solitudine e, quando anche la solitudine è ingannata da un incontro, all’urto scorticante con chi sentiamo di amare, nell’illusione di essere riamati per quel che siamo. Ma, in fondo, quel che siamo è nessuno, perché chiunque si creda qualcuno – che sia un giudice, una star, un pazzo – è ridicolo come un clown. Eppure, solo nelle identità che scegliamo di assumere, abbiamo una chance di essere riconosciuti, accettati, di sentirci ‘utili’ a un altro essere umano o a una causa. Insomma, la questione è complessa. Proviamo a districarla e a vedere quali sono le cinque occasioni di riflessione principali che il Joker senza gloria di Philips ci offre e che varrebbe la pena di non sprecare.
1. Joker – Folie à deux: Arthur Fleck, mostro o malato? Il film indaga l’enigma del Male a cui cerchiamo una risposta impossibile.
In Joker – Folie à deux, l’avvocata che difende Arthur Fleck dall’accusa di aver ucciso cinque persone, a cui si aggiunge, a seguito di confessione spontanea, una sesta vittima, sostiene non sia stato il suo assistito ad aver commesso gli efferati assassinî, bensì una personalità separata, un’identità altra (e alternativa), che ha preso, in quei momenti, per effetto di una dissociazione, il controllo della sua psiche: un meccanismo di difesa che l’ha disgraziatamente spinto all’agìto criminale. Uno psichiatra, che lo ha sottoposto a perizia per conto dell’accusa, sostiene invece che Fleck sia disturbato, ma non a tal punto da perdere contatto con la realtà e consapevolezza delle sue responsabilità criminali: si tratterebbe al contrario di un sociopatico, di un perverso, di un narcisista. Senz’altro non di un ‘matto’ che non sa quel che fa. Psicopatico o psicotico, su questo piano si gioca la partita a scacchi tra difesa e accusa.
Il film, grazie anche alla prova di Joaquin Phoenix, che dosa con estrema oculatezza i virtuosismi interpretativi, riflette intorno all’abitudine non solo di confondere persona e personaggio, ma anche persona ed etichetta diagnostica. Nel rifiuto finale di Arthur di utilizzare la malattia mentale come alibi, c’è in fondo anche una sua ribellione contro l’identificazione di un’intera esistenza – seppure squallida come la sua – con una malattia. Un atto di insubordinazione alla cultura dell’iperpatologizzazione (e conseguente ipermedicalizzazione): nominare un problema significa sottrarlo alla nebbia del non detto e dell’indicibile, dargli un contorno, ma trasformare quel ‘contorno’ in tutta la figura è una deriva che la società attuale spesso prende, illudendosi così di controllare il reale di una sofferenza a cui possiamo trovare mille spiegazioni mediche, ma nessuna spiegazione umanamente esaustiva. Joker – Folie à deux ci consegna nuda la pietra dello scandalo: la devianza non è esito di un trauma, di un abbandono sociale, di un’insufficienza accuditiva primaria o secondaria, di una distorsione chimica, di un malfunzionamento neurologico, di una compromissione organica, ma di tutte questi ‘inciampi’ insieme e di nessuno di questi esattamente. C’è sempre un resto: il resto è la realtà dei fatti. E cioè che non esistono vite che filino mai completamente dritte né direzioni di senso che possano comprenderle in una parola definitiva: che sia matto o mostro.
2. Joker – Folie à deux: Arthur Fleck, freak da fiera o vittima della morbosità collettiva? L’alterità senza dignità, sostenibile solo se ‘iconica’.
Il processo in diretta tv a cui è sottoposto Arthur Fleck – in fondo, questa Folie à deux è soprattutto un dramma giudiziario – si trasforma presto in un evento ipermediatizzato: il film, sebbene non assumendo mai caratteri spiccatamente satirici né puntando mai didascalicamente il dito contro un malcostume, ci mostra il suo protagonista non solo come carne da macello per un’industria, quella dell’informazione, sempre già votata all’intrattenimento, o come vittima della disumanizzante ricerca di gratificazione nell’affermazione di un senso di superiorità sull’altro – le guardie annoiate ora ridono con Arthur, ora ridono di Arthur, godendo dell’umiliazione che gli infliggono insieme trattandolo come giullare e sbattendogli in faccia il suo fallimento come tale –, bensì anche come oggetto di proiezioni altrui.
Arthur può essere sostenuto – dai suoi follower, ma anche da chi lo disprezza o da chi, al contrario, prova a capirlo e tenta di salvarlo dalla sedia elettrica – fintanto che assume l’identità di vittima e di icona: nel momento in cui smette di rappresentare qualcosa – la legge del disordine contro la legge dell’ordine, l’eversione alla norma come norma eversiva da rispettare, l’assoggettamento a una malattia degenerante – finisce anche di essere tout court. Si riduce a scarto tra gli scarti, vita ingiustificabile: come vediamo oggi più che mai, riusciamo a sopportare gli altri – pensiamo agli influencer, moderni profeti, primi fra tutti – solo se possiamo magnificarli (o al contrario demonizzarli) in quanto portatori di valori o disvalori. Quando cade la maschera e il personaggio immaginato si rivela per quel che è, inevitabilmente diverso da quello che avevamo immaginato, non più immagine di nulla e quindi non più immaginabile, lo abbandoniamo, delusi da qualcosa a cui abbiamo creduto perché noi per primi abbiamo voluto farlo.
3. Joker – Folie à deux: Todd Philips ribalta l’archetipo di Joker per distruggere la tirannia del simbolo.
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Il regista sceglie di divaricare al massimo la distanza tra Arthur Fleck, persona, e Joker, personaggio codificato socialmente. Se è vero che Joker, nella tradizione fumettistica che lo precede, esprime un’energia caotica e indisciplinata, lo fa anche secondo un’intelligenza, quindi una ragione disciplinante, ordinatrice rispetto alla stessa anarchia. È infatti un ‘eroe’ nero dall’indole manipolatoria, scaltra. Ghigna perché se la ride, perché sa di aver messo una città sotto scacco, perché sa di essere un genio del male imprendibile, infallibile ingegnere del disordine, prevedibile nella sua imprevedibilità. Nulla di tutto questo appartiene a quella carcassa di pelle, ossa e riso strozzato e sibilante che è l’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix: un uomo fragile, influenzabile, intellettivamente modesto, incapace di manipolare o mettere in piedi un piano.
Arthur non è Joker: non è il Joker archetipizzato (o idealtipizzato) collettivamente, non è il Joker che uccide per ripristinare la dignità offesa degli ultimi, degli emarginati, dei senzalegge, ma solo per reazione a un’insolenza privata, per la ferita egoistica dell’umiliazione personale. Di nuovo, Philips sembra volerci pungolare alla riflessione sulla fallacia e sul rischio di credere ai giustizieri: tanto a quelli che fanno giustizia seguendo la legge ufficiale quanto a quelli che fanno giustizia seguendo una loro ‘controlegge’ banditesca e eversiva. Entrambe le categorie credono di essere Qualcuno – s’identificano in un ruolo, un simbolo –, entrambe s’ingannano, finiscono per risultare grottesche come clown che non riescono a far ridere. Più grottesche di Arthur Fleck, che non ha voluto o potuto essere Joker, anche in questo caso senza calcolo. Semplicemente, nel riappropriarsi di sé stesso, si è riappropriato di un vuoto identitario, dell’impossibilità di essere chicchessia se non la sua soggettività tanto vulnerabile agli affronti altrui da volgersi violenta e omicida.
4. L’amore non salva nessuno. Anche in due, si resta soli. Anche in due, si resta invisibili
«What the world needs now is love, sweet love» intona una voce diffusa via radio nella prigione in cui Arthur Fleck è rinchiuso in attesa di sentenza. Sarà il primo di tanti motivetti che punteggiano il film, per alcuni spettatori ragione di continui fastidi sonori: quello di cui il mondo ha bisogno ora è l’amore, il dolce amore. Un amore che Fleck crede di trovare in Lee-Harley Quinn, una Lady Gaga femme fatale incendiaria, una donna che gli dice di venire dal suo quartiere e di essere figlia di genitori impossibili, quando in realtà è solo una sua ‘fan’ dai quartieri alti, figlia di papà, infiltrata in carcere con l’obiettivo di sedurlo e così diventare la sposa della star criminale (e mediatica) del momento, trofeo del suo trofeo. Arthur sente per la prima volta che qualcuno ha bisogno di lui, e allora prende coraggio, si fa spavaldo: crede alle parole d’amore di lei, ai suoi proclami privati e impunemente pubblici, a un progetto di coppia (e a un figlio) che non verranno mai alla luce. Lee però è disposta ad amare Arthur solo a patto che rivendichi di essere Joker, di portare sulla sua pelle i segni dell’officiante del rito, la maschera del ribelle che non ha paura di scottarsi col fuoco. Finché Arthur può essere anche Joker, lei lo sostiene, alimenta le sue fantasie, lo illude di poter trovare nel suo amore rifugio e redenzione. Ma nessun amore può dare ricovero né redimere, nessun amore può sollevare dall’unica avventura possibile: quella di essere soli e visibili all’altro soltanto se serve uno specchio in cui riflettersi o un fondo opaco in cui immaginare di essere ciò che si vuole, ciò che fa stare meglio. Possibilmente l’eletta di una celebrità, con cui sperimentare non la vertigine di essere in due, ma l’estasi di ritrovarsi – da sola, non con l’altro, ma grazie all’altro – al centro dell’attenzione.
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5. Il pubblico deluso da Joker 2 (il film) è lo stesso pubblico deluso da Joker (nel film)
Il pubblico che esce dal cinema deluso dalla seconda (e ultima parte) dell’interpretazione cinematografica del villain della DC Comics letto da Todd Philips somiglia allora ai numerosi sostenitori o alla stessa Lee-Lady Gaga implacabilmente delusi da Arthur Fleck-Joker: Joker non ha fatto il Joker, non ha creduto di essere un altro, dissociato o coerente rispetto al primo sé stesso che sia, non ha creduto proprio di essere nessuno. Ha deposto la metafora ai piedi del reale, ha ucciso il simbolo che lo avrebbe nobilitato e avvicinato agli altri, che gli aveva permesso per un po’ di giustificare la propria vita senza giustificazione alcuna. Arthur Fleck non ha voluto più ‘giustificare’ un bel niente (con la follia psichiatrica o con la follia di una perturbazione organizzata e seriale), perché non c’è nessun senso possibile a ciò che ha fatto, se non il desiderio di essere ripagato e magari visto per il suo malconcio mucchio di miserie. Ma a nessuno, né a Lee Quinzel né agli spettatori, è sembrato interessare tutto ciò. Il dolore dell’offeso, che non cerca riscatto e non politicizza la propria volontà di vendetta, si risparmia di ripetere sistematicamente lo spargimento di sangue: del male commesso una volta resta soltanto, a posteriori, un sentimento confuso di errore.