Kim Ki-duk: i film più belli del regista coreano
Da Coccodrillo a Il prigioniero coreano, passando per una crisi che ha distrutto ogni certezza: i 20 anni della carriera di Kim Ki-duk, attraverso i suoi film più importanti e rappresentativi.
Esiste una netta cesura all’interno della carriera del cineasta coreano Kim Ki-duk, esiste un prima e un dopo. L’evento spartiacque risale al 2008: durante la lavorazione del film Dream la protagonista Lee Na-yeong rischia di morire per soffocamento sul set e per Kim inizia una crisi lunga 3 anni che modificherà radicalmente il suo modo di pensare al cinema e alla vita. Da sempre sospesa fra la leggerezza del sogno e la greve ferocia della realtà, la sua filmografia è specchio di un’anima fragile ma mai doma, capace di rendersi ampiamente riconoscibile (sia tecnicamente che esteticamente) e al contempo di stravolgere i propri connotati verso inattesi sperimentalismi. Sullo sfondo, pressoché onnipresente, la denuncia del capitalismo degradante e disumano che emargina e genera mostri. Ma quali sono le opere fondamentali dell’autore coreano? Tra le 22 pellicole dirette fino a oggi ne abbiamo selezionate 8 che a nostro parere rappresentano il meglio della sua filmografia.
Il meglio della filmografia di Kim Ki-duk in 8 film
Kim Ki-duk e il suo film d’esordio – Coccodrillo (1996)
Esordio dietro la macchina da presa, che racchiude tutte le caratteristiche fondanti del suo cinema.
A colpire sono la crudezza del contesto, la chiarezza dell’assunto di partenza (la critica aspra alla Corea contemporanea e alle sue contraddizioni) e la violenza – sotterranea, scomoda, angosciante – che attraversa tutta la pellicola.
Film riscoperto a posteriori, al pari di Wild Animals (1996) e The Birdcage Inn (1998), che dimostra essenzialmente come Kim sfugga alle convenzioni e creda nella compenetrazione degli opposti: l’odio può scolorare nella fiducia, la solitudine se condivisa può portare ad una forma forse malsana e forse sbagliata di amore.
Kim Ki-duk – L’isola (2000)
Controverso e crudo, L’isola è la pietra angolare che dà il via alla costruzione della vera carriera di Kim. Grazie a questo film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, il regista entra nel circuito dei festival internazionali e diventa capofila unanimemente riconosciuto del nuovo cinema coreano.
A restare in particolar modo impressa è la famigerata scena degli ami da pesca, apice di una vicenda trafitta da una corporalità che mescola con effetto straniante sangue e sesso.
Dal 2000 al 2002 Kim Ki-duk gira ben 5 film e affina la sua poetica, in quello che sembra quasi un cammino di redenzione e catarsi, uno sfogo creativo che porterà ai due risultati più equilibrati della sua carriera: Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) e Ferro 3 – La casa vuota (2004).
Kim Ki-duk – Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003)
Cosa differenzia Primavera, estate, autunno, inverno dal corpus delle opere precedenti di Kim Ki-duk? La ricerca di un dialogo con lo spettatore, probabilmente. Laddove i primi suoi 7 anni di carriera sembrano monoliticamente ancorati ad una sorta di intransigenza e furia cieca che non conosce sosta, questa opera risulta chiara e conciliatoria.
Complice l’ambientazione (un monastero galleggiante immerso in una natura incontaminata), la storia dell’asceta che accetta il susseguirsi delle stagioni e la ciclicità della vita ha i toni della fiaba e della riflessione morale. Inizia il periodo più felice della carriera di Kim, che proseguirà con La samaritana (2004) e Ferro 3 – La casa vuota (2004).
Kim Ki-duk – Ferro 3 – La casa vuota (2004)
Nel giro di 7 mesi arriva una doppia e definitiva consacrazione: prima La samaritana si aggiudica a febbraio l’Orso d’Argento per il miglior regista a Berlino; poi Ferro 3 porta a casa a settembre il Leone d’Argento sempre per la regia a Venezia.
Il momento più alto della carriera di Kim in Occidente corrisponde però curiosamente al momento più basso in Oriente: in Asia nessuno ne parla, il regista – probabilmente per la vis polemica che ha caratterizzato quasi in toto la sua filmografia – viene del tutto ignorato.
Ferro 3 sfiora la metafisica, e risulta ancora più efficace se paragonato agli squilibri dei film successivi: in L’arco (2005), Time (2006) e Soffio (2007) Kim Ki-duk smarrisce progressivamente la via, cadendo nella ripetitività e nel virtuosismo fine a se stesso. Dalla trasfigurazione del reale si passa così, lentamente ma inesorabilmente, alla sua reiterazione. Sia visiva che concettuale.
Kim Ki-duk – Dream (2008)
L’importanza di Dream è data dalla sua rilevanza extra-filmica: durante le riprese l’attrice protagonista Lee Na-yeong rischia la vita, nel corso della scena dell’impiccagione.
Il film si fa quindi spartiacque e apice della crisi per Kim (crisi tuttavia già ampiamente annunciata da un talento cristallino che col passare degli anni si è fatto maniera), che sospende drasticamente il suo lavoro e torna alla regia solo 3 anni dopo (un tempo lunghissimo per un regista abituato a girare una pellicola all’anno) con il documentario Arirang, vera e propria seduta di auto-analisi.
Kim Ki-duk – Arirang (2011)
Al termine di una crisi durata 3 anni, Kim si ripresenta alla platea internazionale con un documentario più elaborato e stratificato di quanto voglia lasciar intendere: Arirang mette in scena sì un asceta che si auto-analizza e si mette a nudo, ma anche un narciso a cui non si sa quanto dar credito, nel momento di cui fuggendo dalla civiltà porta con sé tutti gli elementi della modernità (auto, tv, computer).
È il nuovo corso di una carriera, in cui si avverte una maggiore malizia e programmaticità di intenti, in sostituzione della – pur sempre apparente – sincerità precedente.
Il nuovo Kim Ki-duk torna alla disillusione, alla denuncia sociale e alla ferocia esistenziale, rinnovando e insieme riaffermando gli stilemi che ne hanno fatto la fortuna.
Kim Ki-duk – Pietà (2012)
Nuovamente conteso dai festival internazionali, Kim Ki-Duk ritrova se stesso e il suo posto fra i grandi del cinema a Venezia, con il Leone d’Oro ottenuto grazie a Pietà. È un premio ampiamente annunciato, l’atto finale di quella che sembra essere – per i più sospettosi – quasi una sceneggiatura scritta ad hoc.
Risulta indubbio tuttavia come Pietà sia un film più che riuscito, spigoloso nel suo simbolismo (cristiano) ed efficace nella sua denuncia al capitalismo. A questo punto il cinema del cineasta coreano non sussurra più la propria contingenza e le proprie ragioni, ma le urla. Prendere o lasciare.
Kim Ki-duk e il suo ultimo film – Il prigioniero coreano (2016)
Distribuito in sala a due anni di distanza dalla sua presentazione al Festival di Venezia, Il prigioniero coreano (il cui titolo internazionale è The Net, decisamente più efficace nel metaforizzare la trappola in cui cade il pescatore protagonista) è un esempio di cinema civile che impallina le due forze contrapposte – Corea del Nord vs Corea del Sud – schierandosi dalla parte del singolo essere umano ostracizzato e condannato, finito suo malgrado nelle maglie di un gioco più grande di lui.
Al bando i simbolismi, si punta dritti verso la denuncia frontale e verso la concretezza. Nel successivo (e ancora inedito in Italia) Human, Space, Time and Human (2018, visto alla Berlinale) tornano tuttavia gli eccessi e una sorta di superbia che respinge il pubblico, sintomi di una involuzione che riavvicina Kim ai suoi esordi.