Da Un affare di famiglia a Il terzo omicidio: il cinema e la poetica di Kore-eda Hirokazu
Kore-eda Hirokazu è, oggi, il rappresentante del cinema giapponese nel mondo. Un autore completo, raffinato ed elegante, che ha posto al centro della sua poetica l'intimismo e l'importanza dei rapporti personali e familiari.
Quando Kore-eda Hirokazu ha ricevuto la Palma d’Oro a Cannes nel 2018 per il suo Un affare di famiglia, non era più decisamente un carneade. Al contrario: il regista originario di Tokyo era ed è considerato un veterano dei festival, che sono stati la sua vetrina a partire dal suo primo film di finzione, Maborosi, insignito dell’Osella d’Oro per la Miglior Regia alla Mostra di Venezia del 1995. La sua carriera, lunga 26 film realizzati in 28 anni, ben rappresenta quello che spesso è il modus operandi del cineasta nipponico: la continua azione e attività, senza sosta, come se le singole opere fossero tasselli di un unico articolato mosaico.
Nonostante ciò, tuttavia, la distribuzione italiana si è accorta relativamente tardi della sua esistenza. È nel quadriennio 2013-2016 che il pubblico si è ufficialmente reso conto del peso e dell’importanza del suo cinema, grazie a Father and Son (2013), Little Sister (2015) e Ritratto di famiglia con tempesta (2016). Tre titoli per inquadrare una poetica: l’intimismo, e la centralità dei rapporti personali e familiari; microcosmi che guardano al macrocosmo di una società – quella giapponese – irta di contraddizioni sommerse e anomalie.
Kore-eda Hirokazu e il rapporto con lo spettatore
È proprio questa presa di coscienza a singhiozzo ad aver fatto sì che Il terzo omicidio, in concorso a Venezia nel 2017, sia stato portato in sala solo dopo quelli che sono in realtà gli ultimi due film di Kore-eda, Un affare di famiglia del 2018 e Le verità del 2019 (sua prima prova occidentale). Un recupero in extremis necessario, soprattutto perché in Il terzo omicidio – legal drama e thriller giudiziario letto da molti come tradimento e sconfessione di un’autorialità che avevamo appena imparato a conoscere – ritornano appieno le tematiche care al cineasta.
Se la cornice è quella di un efferato omicidio con arresto, del conseguente processo e del difficile confronto fra accusato e avvocato difensore, il quadro che prende forma è sempre quello delle relazioni interpersonali, della dicotomia padri-figli, del fluire banale e incessante della vita con le sue deviazioni di percorso. Tutto, in sintesi, ci riporta al cuore pulsante del suo stile: l’indagine di piccole realtà quotidiane, filtrate attraverso dettagli e inquadrature che creano un rapporto privilegiato con lo spettatore, che inevitabilmente si immedesima nei protagonisti.
Yasujirō Ozu, Mikio Naruse e… Ken Loach
Nella nostra smania di incasellamenti e classificazioni, abbiamo deciso che il riferimento più vicino a Kore-eda Hirokazu fosse il maestro del melodramma Yasujirō Ozu, autore nel 1953 del capolavoro Viaggio a Tokyo. Quella delicatezza, quella sensibilità e quella classicità rivivono in effetti in buona parte della filmografia di Kore-eda, anche se mentre Ozu era solito rivolgersi principalmente alla classe media, Kore-eda volge la sua attenzione più verso i margini della società. Tuttavia, i temi ci sono tutti: entrambi parlano di rapporti personali utilizzando i grimaldelli dell’identità e della memoria, con una tecnica che riduce al minimo i movimenti di macchina offrendo una generale sensazione di sobrietà.
Stupisce di conseguenza scoprire che Kore-eda, chiamato in causa sulla questione, ringrazi ma preferisca venire associato ad altri due filmmaker: il regista giapponese di cupi drammi operai Mikio Naruse, tenuto in alta considerazione in patria per la sua capacità di rendere il cosiddetto “pathos delle cose” (una sorta di struggimento nostalgico per la precarietà della vita), e l’inglese Ken Loach. Si potrebbe restare, di primo acchito, sorpresi, ma pensando ad esempio al suo Distance (2001, passato in concorso a Cannes) comprendiamo meglio il riferimento: in fondo il quel film Kore-eda denuda la città del suo vestito metropolitano per mostrarla come un conglomerato urbano indifferente ai bisogni affettivi dell’uomo. E Loach, improvvisamente, non sembra più così lontano.
L’essenza e l’assenza della famiglia nel film di Kore-eda Hirokazu
È il contesto domestico e umano la spinta propulsiva della filmografia di Kore-eda: “Di cosa parlano veramente i personaggi nei miei film? Non di vino, non di cibo… ma di famiglia”. Una spinta spesso critica, solo apparentemente morbida e conciliatoria. Pensiamo sempre a Il terzo omicidio, in cui fra le righe si afferma che il tribunale non sempre è il luogo in cui si stabilisce la verità e che la società si fonda su un sistema imperfetto, retto sulle fondamenta traballanti di esseri umani che giudicano altri esseri umani. O ancora a Un affare di famiglia, che affronta lo scontro di classe, l’invisibilità e il bisogno di costituire il proprio personalizzato nucleo familiare per sopravvivere (un po’ come fa Parasite, l’altro grande campione filmico asiatico dell’ultimo lustro).
Un cinema esistenzialista, contemplativo ma mai immobile, che sovente non vuole dare risposte preferendo la sottrazione – visiva e narrativa – all’eccesso di sollecitazioni. Del resto, come dice il padre fannullone di Kiseki (2011), “Non tutto deve essere significativo. Immagina se tutto avesse un significato. Soffocheresti”: la realtà non regala quasi mai risposte certe, spesso non segue alcuna logica prestabilita aprendo spiragli sull’ignoto che c’è in ognuno di noi e in tutto quello che ci circonda. L’esistenza è piena di lacune e mancanze e, per Kore-eda Hirokazu, colmare quelle zone d’ombra è ciò che indentifica le famiglie nella loro essenza.