La Ballata di Buster Scruggs: spiegazione e significato del film
La spiegazione e il significato de La Ballata di Buster Scruggs, il film dei f.lli Coen composto da sei storie e sei finali che vi faranno riflettere.
Presentato durante la 75ª edizione del Festival di Cannes e disponibile su Netflix, il nuovo film dei fratelli Coen, La ballata di Buster Scruggs (The Ballad of Buster Scruggs) è un puzzle di storie partorite dalla mente dei due cineasti premi Oscar che in principio avevano pensato a questo progetto come una miniserie, salvo poi evolverla in un lungometraggio dalla fortissima impronta western, corredato da interpreti assai noti, tra cui Tim Blake Nelson, James Franco e Liam Neeson.
La ballata di Buster Scruggs è come un unico libro di sei storie (che i Coen hanno elaborato nel corso di 25 anni), ognuna delle quali si conclude in maniera enigmatica, lasciando spazio allo spettatore di fare una propria riflessione sulla morte, filo conduttore dell’intera pellicola insieme all’ambientazione tipica del vecchio West, quindi carrozze, carovane, pistole facili, saloon, giochi d’azzardo. Un trionfo di umorismo, assurdità e tragicità che mixa situazioni surreali con personaggi estremamente reali e vividi, personaggi dalle cui fattezze emergono i pregi e i difetti dell’animo umano.
In ognuna di queste sei storie, in ogni caso, Joel ed Ethan Coen hanno depositato un senso ben preciso, un’interpretazione che potrebbe essere singolare e universale insieme; lo specchio della dura vita del vecchio West!
Cerchiamo dunque di scomporre e capire il significato de La ballata di Buster Scruggs e di ognuno dei suoi 6 finali.
ALLERTA SPOILER!
La ballata di Buster Scruggs: la fugacità della vita il un musical “dark”
Vedendo il film vi renderete innanzitutto conto che esso si lascia raccontare allo spettatore come una fiaba. Sono le pagine di un libro corredato di immagini che man mano vengono sfogliate, segnando la linea di demarcazione tra la fine di una storia e l’inizio di un’altra.
Il primo cortometraggio ha come protagonista Tim Blake Nelson nei panni dell’affabile cantante Buster Scruggs il quale, in sella al suo cavallo, se ne va in giro per il deserto suonando la sua chitarra e cantando – dando alla pellicola, soprattutto in questa sua parte iniziale, un taglio da musical – finché non si imbatte in una locanda in cerca di un bicchiere di whisky. Nonostante l’aspetto mingherlino e poco minaccioso, il buon Buster Sgruggs dimostra di avere fegato e di saperci fare con dei fuorilegge che vogliono sfidarlo, facendoli fuori tutti in men che non si dica. Ripreso il cammino, raggiunge un saloon nella città di Frenchman’s Gulch, dove tenta la fortuna a carte uccidendo poi – per difesa e senza premere il grilletto – un ladro del posto, tale Surly Joe (Clancy Brown), continuando poi a deriderlo attraverso un’esilarante canzone.
È in questo frangente che la sua fine si fa più vicina, prima con la sfida lanciatagli dal fratello del defunto Joe, che vince senza batter ciglio, e poi dalla sfida di un altro cowboy cantante, armato di pistola e fisarmonica: Kid (Willie Watson), che invita lo spavaldo Buster a duello, colpendolo immediatamente alla testa e quindi uccidendolo.
Buster realizza la sua morte togliendosi il cappello bianco e notando che sì, c’è proprio un buco all’altezza della fronte, un buco che gli ha trapassato la testa, causandone il decesso. E mentre il suo cadavere cade per terra, il suo spirito si desta, avviandosi in Paradiso grazie a un bel paio d’ali. L’insegnamento di questa prima storia ci viene consegnato grazie alle note della sua ultima canzone, che intona mentre vola via e nella quale dice di sperare un mondo migliore, in cui le persone siano buone, non cariche d’odio e costrette a uccidersi a vicenda.
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In questo primo corto in cui Buster Scruggs è protagonista viene messa in scena una commedia assurda e dai toni dark in cui il protagonista infrange continuamente la quarta parete per comunicare col pubblico. Uno degli insegnamenti che trasuda da questo primo racconto è certamente che l’apparenza inganna: Buster infatti con la sua chitarra, il sorriso gioviale e l’abito bianco non sembra affatto un uomo temibile, ma la sua abilità con le armi e il modo con cui uccide chi lo minaccia ci fa intendere come sia effettivamente uno di quelli da cui stare alla larga. Così, pur rendendosi conto della feccia che brulica il quel vecchio West e giudicando a ragione di farne parte, spera che in Paradiso ci siano persone nettamente migliori.
Inoltre, questa prima novella ci fa riflettere sulla fugacità della vita, su come nel vecchio West tutto si svolga rapidamente, tutto è meschino, intriso di bugie, pallottole facili, maltrattamenti. Tutto è tranquillo e un attimo dopo è fuoco aperto!
Near Algodones: ironia della sorte
Ad essere protagonista della seconda storia è un cowboy interpretato da James Franco, che cerca di rapinare una banca e lo fa con aria spavalda, sottoponendo l’uomo che sta allo sportello (Stephen Root) a una serie di domande circa rapine e depositi. Quest’ultimo racconta vivacemente di come ha sventato i precedenti attacchi e, quando viene messo alle strette, sorprende il giovane con ben assestati colpi di fucile, per poi darsi alla fuga e attenderlo fuori. Imbacuccato con un’armatura metallica, il cassiere mette fuori gioco il cowboy, che si risveglia con un cappio al collo. Ma proprio mentre gli uomini di legge stanno per eseguire la sua pena, arrivano i Comanche (nativi americani), che con archi e frecce uccidono tutti, tranne il condannato, salvato da un allevatore di bestiame (Jesse Drover) per poi finire nuovamente con un cappio al collo in città, accusato di aver rubato del bestiame. Stavolta, però, non riesce a salvarsi.
Il corto Near Algodones, il più breve di tutti, è una lezione sul destino. Quello del cowboy, infatti, era stato scritto nel momento stesso in cui ha deciso di rapinare la banca e, nonostante in un primo momento sia riuscito a sfuggire all’impiccagione, la sua fine lo stava attendendo proprio dietro l’angolo. Il bello è che, a differenza dell’uomo con la corda al collo che piange al suo fianco, il personaggio di James Franco ironizza sulla sua sorte chiedendo al tizio in lacrime “La prima volta?”. A indorare la pillola al malcapitato la visione di una bella fanciulla.
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Meal Ticket: con la cultura non si mangia
Il tordo senza ali interpretato da Harry Melling e l’impresario di cui veste i panni Liam Neeson sono protagonisti del terzo cortometraggio de La ballata di Buster Scruggs. Lo spettacolo consiste in una performance da solista dell’attore privo di braccia e gambe che recita l’Ozymandias, vari pezzi di Shakespeare e infine il Discorso di Gettysburg. Mentre all’inizio vediamo una cospicua folla, man mano che si va avanti i due rimangono sempre più soli e senza un soldo, finché l’impresario non si imbatte in uno spettacolo affollatissimo in cui la star è una gallina capace di fare i conti. Così l’uomo l’acquista e il povero artista umano ha capito che a quel punto lui è solo un fardello di cui sbarazzarsi. Anche se non lo vediamo morire capiamo bene che è andata così quando l’impresario si ferma e butta giù un sasso dalla scogliera per accertarsi della profondità dell’acqua; quindi va verso il ragazzo, che ha un’aria rassegnata e malinconica insieme, e poco dopo vediamo solo la gallina.
Meal Ticket trasuda malinconia e lascia trasparire quanto sia duro il mondo dello spettacolo e dell’arte in genere: un mondo in cui non esistono sentimenti, ma solo maschere; non esistono uomini, solo predatori.
A parte la recita dell’impresario, che elemosina monete alla fine dello show intenerendo gli spettatori circa la condizione del ragazzo, vediamo l’uomo prendersi cura dell’artista: truccarlo, dargli da mangiare, vestirlo, ma più andiamo avanti nella storia e più ci accorgiamo che l’affetto è solo una facciata. Per l’impresario l’artista è una fonte di guadagno o un fardello, non può essere altro (simbolica a tal proposito la scena in cui paga una prostituta e mette il ragazzo di spalle per non farsi vedere mentre consuma il suo rapporto sessuale) e l’arte è, come sempre, qualcosa di pregiato e che non sa attirare le folle, ammaliate da una gallina piuttosto che dalla poesia teatrale. Insomma, l’impresario non è stupido e capisce bene che un animale consuma meno di un uomo e rende di più.
Tramite questa novella i Coen mettono in scena la loro personale rappresentazione di vinti e vincitori, prede e predatori, intellettuali e ignoranti e sottolineano ancora una volta la bassezza dell’animo umano.
All Gold Canyon: il sogno del vecchio West
Un cercatore solitario (Tom Waits) si imbatte in un canyon meravigliosamente panoramico circondato da alberi e montagne, alla ricerca della sua fortuna. Lavorando duramente e diligentemente, trova delle pagliuzze d’oro in mezzo alla terra e, intenzionato a trovare il filone, si avventura in quella terra, continuando a scavare in profondità, finché trova il tesoro. A stroncare la sua gioia, l’ombra di un uomo (Sam Dillon) che l’aveva evidentemente seguito e che gli spara alle spalle credendo di averlo ucciso, ma il ricercatore è vivo e vegeto, tanto da ricambiare il colpo e uccidere e seppellire l’uomo.
La ferita non gli permette di scavare ancora, ma intanto se ne va via con ciò che ha potuto raccogliere, promettendo il suo ritorno.
Un corto, All Gold Canyon, che rievoca tutto il romanticismo del West e di quella voglia di esplorare, di spingersi oltre i confini del conosciuto, oltre a fare un plauso al personaggio di Tom Waits, che incarna un uomo laborioso e onesto, uno di quelli che ha lottato tanto per vivere dignitosamente e adesso cerca di spuntarla, di avere la sua fetta di fortuna. In questa storia c’è la comprensione tra l’uomo e la natura (il rispetto del protagonista nel lasciare le uova nel nido del gufo, prendendone solo uno), il sogno americano e l’arrampicatore sociale, il furbo che arriva quando il lavoro è già stato fatto per accaparrarsi solo i meriti.
La rabbia del protagonista allora è dettata non solo dal fatto di essere stato derubato e quasi ucciso, ma anche dalla meschinità di chi gli ha fatto fare tutto il lavoro sporco per poi appropriarsene. Ma, come si dice, tutto è bene quel che finisce bene: alla fine il vecchio se ne va via col suo bottino, ripagato dalla dea bendata e dalla sua determinazione.
The Gal Who Got Rattled: il tragico pragmatismo
Un fratello e una sorella, Gilbert (Jefferson Mays) ed Alice Longabaugh (Zoe Kazan), sono in viaggio verso l’Oregon ma lungo il tragitto Gilbert muore di colera, lasciando Alice sola, senza soldi e con un debito di 400 dollari verso Matt (Ethan Dubin), il ragazzo che si occupa del loro carro. All’orizzonte un futuro incerto.
A darle conforto, però, provvede Billy Knapp (Bill Heck), il gentile cowboy responsabile della carovana, che fa amicizia con Alice e, dopo essere chiamato in causa per risolvere i problemi della fanciulla, decide di chiedere la sua mano, facendosi carico del suo debito. La ragazza accetta la proposta, ma un tragico avvenimento sta per travolgerla.
Costretta, all’inizio del viaggio, a sbarazzarsi del suo cagnolino, la ragazza si allontana dal gruppo dopo averlo sentito abbaiare. Trovata dal socio di Billy, il signor Arthur (Grainger Hines), i due si ritrovano a fare i conti con i Comanche. Mentre Arthur si prepara a fronteggiarli, consegna ad Alice una pistola, dicendole di uccidersi qualora le cose dovessero mettersi male: sarà meglio morire con un colpo di pistola che essere rapita, stuprata, infine uccisa brutalmente, dai Comanche. In un ultimo attacco, Arthur si avvicina a uno dei nativi armati, riuscendo però a uscirne vincitore, peccato che Alice pensava fosse la fine, così Arthur la ritrova morta, rimanendo afflitto da quel gesto e tormentato dai suoi pensieri: come farà a dirlo a Billy?
In questo corto i Coen alternano la dolcezza e la gentilezza con la tragicità della vita, sempre piena di imprevisti e follie, premendo l’acceleratore sul pragmatismo e su quanto sia sbagliato agire d’impulso. Alice infatti è, in tutto questo, alla balia degli eventi e sempre dietro a qualcuno che gli dice cosa è meglio fare; prima il fratello che la porta in viaggio con sé per fargli conoscere il suo futuro sposo, poi il debito improvvisamente contratto e la proposta di Billy e ovviamente quella decisione di lasciar morire il cane (presidente Pierce), fingendo non le importasse, solo perché il suo abbaiare infastidiva l’intera carovana. E invece il cane sfugge alla morte e addirittura sopravvive ai due fratelli!
Il fulcro tragico della storia sta anche nell’aver trovato un posto nel mondo per Billy ed Alice (intenzionati a mettere su famiglia, ad amarsi e confortarsi a vicenda), con il loro rapporto che stava per sbocciare, interrotto da un evento fortuito, da una mancata comprensione della ragazza, dalla sua incapacità di constatare la morte di Arthur prima di piantarsi una pallottola in testa. Insomma, nel vecchio West si può anche essere bravi e onesti, ma ciò purtroppo non salva dalla morte.
A ciò si aggiunge anche il rapporto tra Arthur e Billy, con quest’ultimo intenzionato a lasciare il socio per crearsi una famiglia, nonostante il dispiacere di fare questa scelta. Chiaramente la morte della fanciulla metterà i due in una posizione fredda e scomoda.
The Mortal Remains: la degna conclusione di La ballata di Buster Scruggs
Una signora dall’aspetto aristocratico (Tyne Daly), un burbero e noioso cacciatore (Chelcie Ross), un francese col vizio del gioco (Saul Rubenik), un irlandese (Brendan Gleeson) e un inglese (Jonjo O’Neill) si ritrovano a condividere il loro viaggio, scambiandosi parole e racconti circa la loro filosofia di vita.
Alla religiosità della signora, in viaggio per ricongiungersi col marito, si contrappongono i racconti un po’ noiosi del cacciatore circa le relazioni sessuali con una nativa americana di cui non sapeva neanche il nome né parlava la lingua e le osservazioni sull’amore del tizio francese, il quale altresì si dilunga a parlare di amicizia e fortuna. A irrompere nella discussione il malore improvviso della signora e il racconto affascinante dei due cacciatori di taglie, che impreziosiscono la fine del viaggio parlando della loro tattica per uccidere e di come, nell’istante in cui l’anima va via dal corpo, il narrante del caso (Jonjo O’Neill), incaricato di distrarre il malcapitato, resti a vedere cosa succede: il loro contrattare l’ingresso in una nuova dimensione.
Infine i cinque arrivano a destinazione e l’hotel fa davvero un certo effetto: immerso nel nulla, sembra uno scenario da film horror, eppure è l’unico corto in cui non muore nessuno davanti ai nostri occhi, ma per una strana ragione è forse l’unico che ci immerge appieno nel senso della morte e della vita, nel senso della natura umana. The Mortal Remains parla di morte nel momento stesso in cui la signora, il cacciatore e il tizio francese iniziano a discutere sulla natura umana; c’è chi paragona le persone a dei furetti, chi li distingue tra onesti e peccatori secondo le scritture bibliche, chi sostiene che mutano in base alle circostante. Tutti loro, in ogni caso, dovranno morire e i cacciatori di taglie lo sanno bene.
Nell’ultima canzone intonata da Brendan Gleeson si intuisce come il trio succitato sia effettivamente già morto, deve solo elaborare il proprio lutto e per tale ragione gli altri due rifiutano di essere definiti “cacciatori di taglie”, definendosi piuttosto “mietitori d’anime”. Insomma, The Mortal Remains è la degna conclusione del film La ballata di Buster Scruggs, un racconto soprannaturale che racchiude in sé tutte le gemme seminate lungo la pellicola come ad esempio l’idea dell’aldilà come di un posto non definito e il fatto che chi muore non sa subito la destinazione finale, ma cerca di trovare la strada, sperando ovviamente che sia un posto migliore di quello in cui si trovava in precedenza.
In questa ultima novella c’è poi l’impronta del musical, che si ricongiunge al primo capitolo, la volubilità dell’insondabile animo umano e l’imprevedibilità della vita, che sfugge dal corpo senza che ce ne rendiamo conto, magari mentre qualcuno ci incanta con una storia.