La casa di Jack: icone e simboli nel film di Lars Von Trier
Male, inferno, ma soprattutto arte: è la ricerca di qualcosa di superiore che lega La casa di Jack, l'iconografia che è il cinema di Lars Von Trier.
C’è la vita. C’è la morte. Poi, nel mezzo, c’è l’arte. Plasma i contorni, forgia le direttive e si innalza a unico simbolo da perseguire in questa esistenza. Senza arte non siamo niente. Senza arte, forse, diventiamo serial killer. È ciò che accade al protagonista de La casa di Jack, ultimo film del vanesio e sconcertante cineasta danese, che ha riformulato le incompletezze intime dei suoi malesseri trasformandoli in una delle filmografie più suggestionanti del cinema del Duemila. Lars Von Trier, che nel Jack dell’attore Matt Dillon pone somiglianze con le proprie idiosincrasie come un ritrarsi nella versione più estrema di sé, compie un lavoro di scavatura, di abissale ricerca. Un addentrarsi nelle disfunzioni umane che, in direzione del cuore dell’inferno, ne scardinano le sovrastrutture per centrarne il nucleo, finendo per trovarne le icone.
È il film stesso a parlare, infatti, del valore dell’icona. Ciò a cui aspiriamo, ciò che è superiore e, nella propria formazione, include gli assunti primari di un’ideologia, di una causa da perseguire. E sono varie le icone che Jack e il regista hanno da dissezionare. Dell’immoralità assoluta, dell’insensatezza delle ingiustizie umane, del puro atto di uccidere, crudo e unico. La casa di Jack espone la propria natura di raccoglitore di discussioni portate avanti dalla cinematografia di Von Trier e riserva, ad ogni tema cruciale, il proprio scompartimento.
La casa di Jack – le icone della vita, della morte, dell’inferno
C’è, per cominciare, l’icona del male a palesarsi con chiarezza. Una calamità inevitabile, un sopraggiungere impossibile da contrastare, insito in una profondità talmente irraggiungibile da non poter essere sradicato. È una condizione inamovibile, aggrappata nella persona di Jack, che lo muove fin dall’infanzia. Una condizione primaria che resta ingiustificata in Lars Von Trier, inserita in un delirio sempre più pressante che non ha soluzioni, non ha giustificazioni, non ha motivo se non quello di esistere di per sé. Scollegato, dunque, da interazioni tangibili e di questa Terra, il male si eleva a iconografia nei cadaveri che Jack congela, nel materiale che i corpi rappresentano per le fondamenta di quella casa agognata, quel varco che lo condurrà nel mezzo dell’inferno.
Quest’ultimo ulteriore segno visivo de La casa di Jack, che a piene mani prende dall’iconografia dantesca e ne mette in scena i luoghi, le camminate, le percezioni. Un recupero del tema infernale che investe il protagonista Jack, la vestaglia rossa che diventa tunica del poeta fiorentino e catalizza l’occhio dello spettatore sulla figura maledetta del killer. La discesa negli abissi è un rimando all’immagine universale, un’iconoclastia sviscerata a cui il regista applica mutevolmente tecnicismi d’autore, ma che rassomiglia in maniera così analoga alla conoscenza del percorso negli inferi, che quasi è irrilevante il suo avanzare di inquadratura in inquadratura a seconda di intuizioni registiche. Poiché tutto viene sospinto in quell’unica direzione: l’icona dell’Inferno.
La casa di Jack – L’ingegnere che sognava l’architettura
Due istanze che si intrecciano, che si accompagnano nella vita e nella visione dell’esistenza di Lars Von Trier. L’inferno ci attende perché è eterno come eterno è il male che ci è riservato e che accanisce il proprio risentimento verso quell’idea di arte irraggiungibile per il personaggio di Jack. È nell’icona dell’arte l’aspirazione dell’uomo, nella sua primigenia volontà di esprimersi con i dettami della creatività e che, invece, ne riporta solo l’inadeguatezza. Un distacco dall’artisticità che porta l’omicidio a diventare più della semplice morte di un essere umano, ma sola maniera per potersi esprimere.
Da qui l’icona della casa. I corpi esamini di Jack si fanno elementi della sua composizione, argilla con cui l’uomo può finalmente portare a conclusione la struttura voluta, il suo sogno d’architetto mai afferrato nella vita. La dimora è, quindi, esaltazione totale del film di Lars Von Trier: è il male, quello perpetrato da Jack sulle vittime, l’inferno, la cui porta d’ingresso della casa conduce direttamente nel regno dei morti, l’arte, come manifestazione di un’architettura che era la sola che il personaggio avrebbe potuto ideare.
La casa di Jack – La summa del cinema di Lars Von Trier
Ma è nella sua ambizione ancora più esposta che La casa di Jack trova la propria realizzazione e, perciò, l’icona massima: quella del suo autore e del proprio cinema psichico, psicanalitico e psicopatico. Il valore dell’icona risuona nell’opera di Von Trier a colpi di eco che provengono dalla sua intera filmografia. Il pensiero della sofferenza, della depressione, della sopraffazione, figure a cui il regista danese è devoto vengono condensate in quello che si autoproclama il manifesto sommario di una cinematografia, di una carriera intera – e riportato da stessi brandelli di film. Jack e ciò che da lui deriva è il catalizzatore di una poetica che il cineasta supporta e asseconda dal principio del suo inserimento nell’arte cinematografica, che ha sempre rivissuto delle paranoie dell’essere umano, fuoriuscite direttamente dalle nevrosi del suo ideatore.
Così La casa di Jack diventa icona del cinema di Lars Von Trier, la misura del valore in cui verrà considerato dai posteri, summa di un mestiere da artigiano fatto con deliri e manie di onnipotenza. Come quella di poter nullificare il valore dell’omicidio in favore di un perseguimento più grande, oltreumano. Il desiderio di assolutezza. Il desiderio di supremazia sull’inconscio e il supplizio. Il desiderio di Lars Von Trier.