La cura dal benessere: la spiegazione del film di Gore Verbinski
Se già dai primi 20 minuti del film La cura dal benessere si intuisce che Gore Verbinski è sulla strada giusta per edificare un piccolo capolavoro, dalla visione completa del film se ne ha la conferma assoluta.
La cura dal benessere è tutto ciò che un appassionato di cinema, stufo delle opere filmiche fini a se stesse e sempre simili tra loro, vuole vedere. È denuncia, riflessione, fantasia, mistero; è storia del luogo e storia dell’uomo; labile confine tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo costretti a essere; ciò che eravamo e ciò che siamo diventati.
Un film nel quale si nascondono differenti chiavi di lettura, capace di calarsi nel cunicolo più intimo della psiche e frastornarlo di illusioni e concetti giusti quanto altamente fraintendibili. Un film che va seguito dall’inizio alla fine senza batter ciglio, salvo perdersi tra i meandri oscuri del ragionamento, dimenticarsi di dar retta a qualche dettaglio impercettibile ma essenziale per captare qual è la cura, “la cura dal benessere”.
Con questo film Gore Verbinski (The Ring, Pirati dei Caraibi) dà prova di essere un regista “architettonico”: linee rette, figure geometriche, inquadrature senza sbavature inutili, nelle quali il punto di fuga centrale genera suspense, aspettativa, mistero. L’intero film è costellato da corridoi lunghissimi – andare avanti e indietro è una legge fisica, ma soffermarsi, deviare, aprire porte, è una legge umana, è curiosità – corridoi retti, dritti, infiniti. Il protagonista si muove in uno spazio labirintico. Può scegliere di aprire tutte le porte, scoprire cosa contengono le stanze, ma la porta d’ingresso principale rimane perennemente un miraggio, nonostante il medico della clinica tenga a sottolineare che gli ospiti sono “pazienti, non prigionieri” nessuno riesce a fuggire via da lì.
Se avete visto La cura dal benessere sarete usciti dalla sala estasiati o magari confusi e con qualche domanda sul finale, desiderosi di avere maggiori spiegazioni sul film. Avvisandovi che da questo momento in poi ci saranno degli spoiler, proseguiamo con la spiegazione de La cura dal benessere.
La cura dal benessere: la storia del barone e la ricerca della cura
Il Sig. Lockhart (Dane DeHaan) è un giovane affascinante, scontroso, falso e ambizioso. Un individuo che non ricorda nemmeno il compleanno della madre, conduce una vita piatta, frenetica e legata a quotazioni in borsa, chiamate perennemente urgenti e pc sempre accesi. Rifiuta l’empatia: scambiare qualche battuta con un suo simile sembra più un peso che un piacere, senonché la mancanza di rete lo costringe a farlo.
Il suo primo avvicinamento umano si percepisce infatti nel momento stesso in cui arriva nello sperduto paesino delle Alpi Svizzere, mentre dialoga con l’autista e man mano inizia a entrare nel mood del luogo. La storia raccontata dall’uomo in qualche modo lo attrae e funge da filo conduttore della sua futura indagine.
Si tratta di una storia risalente a due secoli fa, quando quelle terre erano di esclusiva proprietà di un’unica famiglia. Persuaso dall’idea della purità della stirpe, il barone decise di sposare la sorella, ma la Chiesa si oppose, rifiutando la loro unione. Il popolo allora inveì contro i due sposi, bruciando viva la donna e costringendo il barone a vederla morire.
Man mano però a questa leggenda si aggiungono dettagli interessanti. Si scopre che la moglie del barone era incinta e che le estrassero il feto prima di bruciarla viva e che quella bambina miracolosamente si salvò. Questa è la versione raccontata da una paziente appassionata di storia.
C’è però anche un’altra versione, quella del direttore della clinica, il Dott. Heinreich Volmer (Jason Isaacs), il quale sostiene che il barone stesse cercando la cura alla malattia della moglie e per farlo fece alcuni esperimenti su alcuni mezzadri di sua proprietà.
Le anguille e il caduceo: l’equilibro tra la vita e la morte
Le anguille sono onnipresenti in tutta l’opera e rappresentano una delle chiavi di lettura de La cura dal benessere. Apparentemente si scambiano facilmente con i serpenti, poiché il nostro background culturale collega la vista di due rettili attorcigliati al caduceo, simbolo in Italia della farmacia. Anche fuori dai nostri confini un emblema simile – il bastone di Esculapio – rappresenta la medicina. Ciò che sembra un caduceo lo vediamo nel sigillo in ceralacca della lettera che Pembroke (Harry Groener) invia al suo ufficio e nei cancelli d’ingresso della clinica. Ma man mano che la trama si infittisce apprendiamo che non si tratta di serpenti, bensì di anguille e, stando ai racconti del Dott. Volmer, la specie presente in quel luogo riesce a sopravvivere per circa 300 anni grazie alla qualità dell’acqua.
Le anguille sono nelle vasche, nel water, nei disegni. Si insinuano sotto la superficie facendo intendere al mondo esterno la salubrità di quel luogo, mentre in realtà ne rappresentano il male primordiale e principale.
Solo nella seconda metà de La cura dal benessere intendiamo che quei pesci sono carnivori e divorano i pazienti morti. Come se quella struttura fosse un’enorme scusa per nutrirli.
Inoltre il caduceo indica l’equilibrio del bene e del male, forze che nel film si compensano a vicenda, come lo stile di vita, l’essenza dell’esistenza e la ricerca della purezza.
Non a caso, quando Lockhart scopre il laboratorio tra gli esprimenti sotto formalina vi sono, oltre ad alcuni feti umani, anche delle anguille sezionate, dalle quali molto probabilmente il barone/ Dott. Volmer cercava di estrapolare l’essenza della purezza.
Chi è e quanti anni ha Hannah?
Hannah, interpretata da Mia Goth, è una ragazza strana e misteriosa. La prima volta che il protagonista la nota è in cima alla clinica, sul cornicione. Le sue vesti bianche e gli spostamenti rapidi ci lasciano pensare che si tratti di un fantasma, ma andando avanti è chiaro come non faccia parte solo dell’immaginario di Lockhart.
Ciò che lo spinge a parlarle è il fatto che sia molto più giovane degli altri ospiti della clinica, così inizia a farle delle domande. La ragazza risponde di essere una “paziente speciale”. Non fa cure termali, non beve acqua, non si tuffa in piscina. Da quanto ne sappiamo vive lì da sempre e lo stesso Dott. Volmer cerca di convincerci che abbia un ritardo dicendo che, pur avendo il corpo di una donna, ha il cervello di una bambina.
Cresciuta in un ambiente protetto, Hannah non si pone domande e si fida ciecamente del dottore, che le suggerisce perennemente cosa deve e non deve fare. Quando però il protagonista la coinvolgerà nella sua indagine inizierà a svegliarsi e a ribellarsi.
In ogni caso la sua immagine è attorcigliata a un punto di domanda che non lascia superstiti. Mentre in principio possiamo vederla come la figlia di qualcuno o la trovatella occasionale, man mano che la trama va avanti comprendiamo che Hannah è quella bambina che si è miracolosamente salvata la notte in cui il popolo diede alle fiamme il barone e la sua sposa. Lei è la figlia del barone, ovvero del Dott. Volmer!
Ma se lui ha il volto così sfigurato e marcio (sotto la maschera di pelle che indossa), perché lei è così giovane, bella e perfetta? Per lei non sono passati 200 anni? È come se le “vitamine” l’avessero preservata ed è come se le stesse avessero preservato gran parte della popolazione di quel paesino svizzero – vengono assunte anche dal capo delle forze dell’ordine, ad esempio.
La ballerina che vive dentro un sogno
A valle di tutta la storia narrata in La cura dal benessere vi è un carillon dipinto dalla madre di Lockhart. Quando lui va a trovarla presso la casa di riposo la trova intenta a dipingere la ballerina prima di farla ruotare su se stessa. La donna spiega al figlio che quella danzatrice è diversa dalle altre perché vive in un sogno.
Ciò che può sembrare il discorso inconcludente di un’anziana signora in realtà è una delle chiavi di lettura principali del film.
In un flashback inserito nel momento dell’incidente vediamo il medesimo carillon cadere dalle mani alla donna. Servendosi di un montaggio perfetto Gore Verbinski ci fa credere per un attimo che il protagonista abbia trovato la morte, mentre in realtà sta solo celebrando il funerale della madre.
L’immagine della ballerina è ricorrente nel film, esplicitamente connessa alla figura di Hannah (cui d’altro canto viene donata la ballerina in cambio di un passaggio in bici). La ballerina che si è rotta cadendo rappresenta la fragilità dell’essere e il fatto che tenga gli occhi chiusi e sorrida altro non è che un parallelismo con la ragazza, che in diverse scene appare danzante in acqua. Hannah è il reportage umano del carillon: vive nel sogno che le è stato imposto, ma cosa accadrà nel momento in cui verrà qualcuno a svegliarla?
La cura dal benessere: il sangue per raggiungere la verità
La sua presa di coscienza coincide con l’arrivo di Lockhart, il quale cerca di impiantare nella mente della ragazza dei dubbi. Il loro piccolo viaggio in paese è una prova di fiducia reciproca e una perdita di verginità dal punto di vista filosofico. Hannah entra fisicamente a far parte del mondo normale, interagisce con molti giovani, danza con uno di loro e assiste anche a degli atti di violenza. È innegabile che quell’esperienza la porti ad avere delle domande e ad avanzare verso il mondo “non protetto”.
Registicamente il rosso è il colore che simboleggia la sua perdita di purezza; il rosso del rossetto che trova nel wc del pub e col quale giocherella prima di tingersi le labbra; e il rosso del sangue mestruale, linea di demarcazione tra il mondo infantile e quello adulto.
Il rosso è il colore del sangue, la tinta che stride con il verdastro ricorrente in tutta la pellicola; è il colore della vita che scorre nelle vene di Hannah, la stessa che lei da quel momento è in grado di generare.
Il sangue è la chiave di volta per raggiungere la verità: il protagonista che si toglie il gesso spaccando il bicchiere di vetro (e tagliandosi inevitabilmente le mani mentre cerca di liberare la gamba), Hannah che è attorniata dalla anguille all’arrivo del mestruo e il Dott. Volmer – che si rivela essere il barone – che alla vista del sangue sposa precipitosamente sua figlia e la conduce nel letto nuziale con l’intento di portare a termine il compito fallitogli due secoli prima.
Il sangue è la ricerca della verità, esso sgorga nel momento in cui si prende coscienza del mondo esterno. Non a caso dentro la clinica non vediamo nessuna ferita e nemmeno l’ombra della sofferenza, ma l’arrivo del protagonista genera una ricerca che per essere portata a termine necessita di quel minimo di tribolazione; un prezzo giusto da pagare per aver rinunciato al “paradiso terrestre”.
Il senso del tempo
Elaborando La cura dal benessere Gore Verbinski riserva particolare importanza alla relatività del tempo. Il suo film è denso di significato in ogni inquadratura e il trascorrere delle giornate acquista pesantezza grazie ad alcuni accorgimenti registici. I primi 15/20 minuti del film, per esempio, sembrano scorrere lentissimi, tanto da avere l’impressione che la pellicola termini da lì a poco, mentre in realtà è appena iniziata e lo sappiamo bene!
Quello che sembra essere un quadro ben dettagliato e lineare in fondo non lo è affatto. Il tempo trascorre lentamente all’inizio e anche proseguendo la visione abbiamo la sensazione di rimanere impantanati in quel luogo orrendo. Ma l’accelerazione temporale è sorella del ragionamento: quando Lockhart comprende cosa accade alla clinica fa presto a capire i loro piani e in fretta cerca di liberare dall’incubo l’unica persona che lo merita, ovvero Hannah.
Ma il tempo de La cura dal benessere non è solo sensazione bensì anche incastro scenico. Ci sono alcuni tasselli che non tornano. Ad esempio quando al protagonista viene tolto il dente (una delle scene più truculente del film); non dovrebbe averlo fino alla fine della pellicola invece alla fine sorride sfoggiando una dentatura perfetta.
Gli occhi e il riflesso del mondo
Altro dettaglio della pellicola sono gli occhi e in particolar modo i riflessi. Già nell’incipit de La cura dal benessere non possiamo fare a meno di notare gli enormi grattacieli specchiati nel quale si vede la città, nonché finestrini di macchine e treni che ci danno la prova di quanto sia impeccabile la fotografia di Gore Verbinski.
Ma ancora più bella è la scena in cui l’immagine del dottore e del protagonista si riflette nell’occhio vitreo del cervo imbalsamato attaccato alla parete, come se lo stesso nascondesse una telecamera.
Riguarda poi sempre gli occhi la scena dell’ospizio, in cui un piccolo specchio ci fa notare l’occhio stanco dell’anziana madre (che a modo suo legge le carte del futuro al figlio).
Facendo la somma, tutte queste scene e questi specchi altro non sono che l’estensione della prospettiva, di come il mondo ci vede e di come noi lo percepiamo.
Chi è davvero Lockhart?
L’identità del protagonista è in divenire dall’inizio alla fine. L’arrivo in quel luogo sperduto tra le Alpi svizzere coincide con lo sgretolarsi della sua corazza metropolitana. La mancanza di rete e tecnologia lo ammorbidisce umanamente lasciando che egli entri in contatto con gli esseri più deboli della clinica ma permettendogli anche di scavare nel suo passato, in quella parte del suo cuore rimasta ammuffita e blindata per anni.
Se per certi versi è per colpa della clinica che Lockhart affronta le pene dell’inferno, d’altro canto è proprio grazie a quella struttura e alle persone che ivi operano che riesce a spolverare il suo passato (la storia del suicidio del padre) e a trovare un equilibrio vitale.
Lockhart è forse l’unico che trova la “cura dal benessere”, comprendendo che esso non risiede nel passare il tempo tra un bagno turco e una seduta d’acquagym, né nel dedicarsi anima e corpo al lavoro. La cura dal benessere necessita del malessere fisico e soprattutto interiore e per lui la terapia è la ricerca della verità nascosta in quel luogo, cercata con affanno e ingordigia.
Certo, c’è un momento verso la fine del film in cui sembra che si sia adeguato al mood di quell’ambiente, ma per fortuna è un falso allarme: se fosse finito in quel modo il film sarebbe stato scontato!
La cura dal benessere: spiegazione del finale
Sono tanti i dettagli disseminati nell’opera ma il finale è quanto di più istruttivo il regista poteva donarci.
Esaminando la scena:
La clinica è in fiamme e tutti ammirano il fuoco divampare. Lo stesso Lockhart sembra aver dimenticato i suoi piani, finché la fanciulla (Hannah) lo desta e lo spinge a correre via. I due così corrono giù per la collina e nella fuga si imbattono nell’auto dei datori di lavoro del protagonista, che vorrebbero costringerlo a salire in auto e ad andare via.
La bellezza della scena finale risiede proprio nel rifiuto! Lockhart fugge via dalla clinica e fugge via dal mondo lavorativo. Tra il vecchio e il nuovo il protagonista ha sperimentato un altro orizzonte confacente alla sua idea di vita. La corsa in bici, mentre sorride e il vento gli sfiora il volto, è un inno alla libertà e alla vita, quella vera!
E se vi state chiedendo perché nel suo sorriso da folle ha tutti i denti la risposta è che molto probabilmente gli è stato attaccato! Già, perché se vi ricordate bene a un certo punto il protagonista si cava un dente. Una delle infermiere se lo fa consegnare per metterlo dentro al latte, perché? In pochi sanno che il latte, così come la soluzione fisiologica o la saliva, mantiene l’idratazione del dente, dando la possibilità al malcapitato di farselo riattaccare.