La fabbrica di cioccolato: la morale del film di Tim Burton
La fabbrica di cioccolato è stato concepito con la finalità di trasmettere, attraverso una metafora vivace, un messaggio sui pericoli dell’avidità e dell’esagerazione.
Rievocando memorie d’infanzia e facendo leva sul fattore nostalgia, La fabbrica di cioccolato si è trasformato con il passare del tempo in pilastro fondamentale della cultura pop degli anni Duemila. Chi non ha mai visto o letto almeno una volta il film diretto da Tim Burton nel 2005? Incantando i bambini di ogni età e di ogni parte del mondo, il lungometraggio nasconde una complessa morale di cui tuttora non tutti sono a conoscenza.
Da ormai un secolo, le parole che compongono i racconti di Roald Dahl, scrittore britannico la cui produzione artistica ha costellato gran parte del Novecento, accompagnano nella crescita bambini e ragazzi. Tra i suoi titoli, primo fra tutti spicca La Fabbrica di Cioccolato, probabilmente il romanzo dedicato al giovane pubblico più popolare dell’autore sopracitato. Attirando l’attenzione di grandi nomi del cinema mondiale su di sé (in particolare, Mel Stuart e Tim Burton, entrambi autori di celebri traduzioni cinematografiche dell’opera letteraria), il racconto nato dalle feconde fantasie di Roald Dahl si fonda su una base morale fortemente educativa, come ogni favola che si rispetta d’altronde.
La morale che si nasconde dietro a La fabbrica di cioccolato, il celebre lungometraggio di Tim Burton
Charlie Bucket vive in una malandata baracca di legno con i genitori e i quattro nonni, nutrendosi esclusivamente di zuppa di cavoli e negandosi ogni piacere tipico dell’infanzia. Improvvisamente, l’eccentrico signor Willy Wonka, conosciuto in tutto il mondo per la sua prestigiosa fabbrica di cioccolato, sconvolge con un annuncio la calma della piccola cittadina in cui vive il bambino: il proprietario dell’industria dolcifica ha nascosto cinque biglietti d’oro in altrettante tavolette di cioccolato sparse per il mondo. I biglietti daranno la possibilità a coloro che li troveranno di visitare la sua grandiosa fabbrica. Ovviamente, come può essere facilmente dedotto, anche Charlie Bucket stringerà quell’ambito pezzo di carta dorato tra le mani e verrà accompagnato da questa peculiare avventura da altri quattro bambini con cui condivide l’età, ma non lo stile di vita: il tedesco Augustus Gloop, goloso, ingordo e obeso; l’inglese Veruca Salt, capricciosa ed estremamente viziata; gli americani Violetta Beauregarde, vanitosa e ipocrita, e Mike Tivù, un futuro e promettente genio del panorama scientifico mondiale.
La fabbrica di cioccolato di Roal Dahl è probabilmente il racconto per bambini più popolare che sia mai stato scritto e, proprio come l’opera letteraria, anche il riadattamento per immagini generato dalla mente creativa di Tim Burton si è imposto con lo scorrere del tempo come uno dei pilastri della declinazione cinematografica pop culture degli anni Duemila.
Contorta narrazione impregnato di una morale di stampo vittoriano, La fabbrica di cioccolato è stata concepita con la finalità di trasmettere, attraverso una metafora vivace dal sapore del cioccolato, un messaggio sui pericoli dell’avidità e dell’esagerazione. Proprio per tale motivo, Tim Burton, emulando ciò che era stato precedentemente fatto tramite un altro medium da Roald Dahl, prende la decisione di associare ad ognuno dei personaggi del suo lungometraggio un vizio. In particolare, Augustus Gloop trasmuta in personificazione della gola; Veruca dell’avarizia; Violet della superbia; Mike dell’accidia; Nonno Joe dell’invidia; Charlie della lussuria; Willy Wonka, infine, dell’ira. La prova effettiva della volontà dell’autore del romanzo si riscontra nei suoi scritti privati.
In poche parole, Dahl voleva che ogni figura presente nel suo racconto fosse cattiva a modo suo.
Il lungometraggio d’animazione in questione illustra come l’esagerazione dell’avidità possa consumare fino a distruggere una persona. Il concetto del karma, che si interseca inevitabilmente con l’idea propria di una morale vittoriana della ricompensa, risuona perpetuamente in La fabbrica di cioccolato: i bambini che si comportano in modo negativo saranno vittime di eventi brutti, dolorosi e drammatici.
Ciascuno dei bambini, infatti, riceve una punizione che risulta essere esplicitamente collegata al loro vizio. Così il terribile affamato Augustus Gloop, dopo essersi tuffato nel fiume di cioccolato, rimane bloccato in un tubo a causa della sua stazza; Violet Beauregard si gonfia e si trasforma in un enorme mirtillo, dopo aver mangiato una gomma da masticare sperimentale a cui, stando a ciò che le aveva consigliato Willy Wonka, non doveva avvicinarsi; Mike Teavee si ristringe fino a scomparire dopo aver cercato di tele-trasportarsi attraverso una televisione; infine, dopo essersi lamentata per non aver ottenuto ciò che voleva, la viziata Veruca Salt viene catapultata in uno scivolo adibito al trasporto della spazzatura. E Charlie? Essendo l’unico bambino buono e gentile, capace di seguire le regole che gli erano state imposte durante il suo tour nella fabbrica, l’eroe del racconto e la sua umile famiglia riceveranno una ricompensa: un tetto sicuro sotto il quale vivere, cibo e cure in numero illimitato.
La narrazione delineata in La fabbrica di cioccolato, quindi, si presenta al pubblico come una storia sottile e contorta sulla morale. Dietro la superficie della fabula, in cui si vedono susseguirsi le azioni di cinque bambini abbastanza fortunati da essere ammessi nella fabbrica di Willy Wonka, si nasconde un’allegoria che analizza la morbosità di vizi e dipendenze e l’importanza della famiglia e dell’educazione, così come l’inganno che è insito nelle apparenze. Un messaggio come questo, contenente una pluralità di stimoli di riflessione, incoraggia lo spettatore a mettere sempre in discussione la realtà e a guardare con occhio critico ciò che lo circonda, imparando ad andare oltre la superficie.