La Grande Bellezza: il significato del film di Paolo Sorrentino
La Grande Bellezza è come un labirinto, bellissimo ma insidioso, in cui i vari temi che vi si intrecciano formano un groviglio narrativo apparentemente inestricabile ma dotato di un filo conduttore.
La Grande Bellezza, diretto da Paolo Sorrentino e vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero, si presta a molteplici interpretazioni. Una bussola è fornita all’inizio del film, tramite la citazione tratta da Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline ma, da sola, non è sufficiente per navigare a vele spiegate nel mare magnum che La Grande Bellezza va a sondare. Fuor di metafora, carpire appieno l’essenza più profonda di quest’opera non è scontato, anzi, in essa si annidano ramificazioni su ramificazioni, che rischiano di condurre lo spettatore fuori rotta.
La Grande Bellezza è come un labirinto, bellissimo ma insidioso: i vari temi che vi si intrecciano, come la religione, l’arte, il sesso, le relazioni sociali, formano un groviglio narrativo che parla di tutto e di niente. Non si sa se il centro dell’opera sia la vacuità e lo sfarzo del clero, la superficialità e la tristezza insita nelle lussuose situazioni mondane della Roma d’elite, il sesso come unico mezzo per veicolare un contatto umano ormai perduto, oppure l’arte come risorsa ormai degradata, sminuita, ridicolizzata. Forse tutto questo e anche di più.
Il titolo stesso del film, La Grande Bellezza, riesce a racchiudere perfettamente il quadro d’insieme: tutto è, almeno esteticamente, bello. Il problema è, semmai, che tutto risulta patinato, offuscato da una nebbia quasi onirica, vellutata, come se si fosse costantemente in bilico fra sogno e veglia. Tornando alla citazione di Céline:
Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato, è un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.
Infatti, è difficile stabilire cosa, in questo film, sia reale e cosa sia immaginario o frutto di un sogno. In ogni caso, Sorrentino mostra il disfacimento di un’epoca: l’annullamento dei valori della famiglia e del matrimonio, il decadimento dell’arte, il vizio come unica nota che accomuna tutti i protagonisti. Il contraltare a questo teatrino dell’assurdo, a questo freak show romano e contemporaneo, è il personaggio della “santa”, ovvero l’unica estranea allo sfarzo e alla mondanità e, per questo, separata da tutto il resto.
La “santa” si contrappone non solo ai festaioli e superficiali amici di sventure di Jep, ma anche ai suoi stessi “colleghi” ecclesiastici, che ormai hanno perso ogni contatto con la vera essenza della fede, trasformandosi in fenomeni da baraccone e clown dello show proposto dai vari festini e cerimonie che si avvicendano nella narrazione. Anzi, più che di narrazione si dovrebbe parlare di vero e proprio flusso di coscienza di Joyciana memoria.
Non ci si meraviglia della perdita di ispirazione di Jep, del suo blocco dello scrittore. Il brillante protagonista, non per niente, spicca su tutti gli altri per profondità e per avere ancora una genuina partecipazione umana ed emotiva agli eventi che lo circondano. Jep rappresenta senz’altro la poesia e l’arte che, in un mondo come quello in cui viviamo, sono quasi castrate e strozzate, represse da tanta viva e straripante superficialità.
Come si può riacquistare la Musa, in una realtà in cui ormai vengono applauditi come artisti donne che prendono a testate il muro e bambine che cospargono di vernice una tela bianca? Come si riconosce la vera arte e la vera poesia, come si ritrova una sincera spiritualità, quando gli stessi officianti, gli stessi rappresentanti di queste categorie non credono più nei valori che originariamente li avevano ispirati?
La Grande Bellezza è un film che parla di una perdita, di un lutto, ma nel modo più elegante e sofisticato possibile: il messaggio è indirizzato a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire, per tutti gli altri si tratterà solo di un omaggio (comunque non da poco) allo splendore e agli sfarzi della Città Eterna.