La grande partita: la storia vera del re degli scacchi Bobby Fischer
È stato una delle poche icone mainstream degli scacchi, un vero e proprio simbolo della guerra fredda.
C’è stato un momento, nel periodo della Guerra Fredda, dove sembrava che gli scacchi avessero conquistato il mondo o fossero in procinto di farlo. Nel 1972, un americano sorresse le sorti del suo Paese sulle spalle. La partita si tenne a Reykjavik, in Islanda, e venne trasmessa in tutto il mondo, assumendo un enorme significato simbolico. Il regista Edward Zwick e la star Tobey Maguire hanno ricreato quanto accadde ne La grande partita.
La pellicola parte dall’educazione dello statunitense Bobby Fischer, cresciuto da una madre comunista single, e continua a seguirlo negli alti, ma anche nei bassi, fino alla morte.
Sebbene gli scacchi non abbiano avuto un impatto duraturo sulla cultura pop, La grande partita ha la possibilità di riportare alla ribalta il fondamentale confronto sovietico-americano. Fischer è ancora probabilmente una delle figure più riconoscibili della Guerra Fredda e una rara icona mainstream della disciplina.
La grande partita: il genio e le ossessioni di Bobby Fischer
Il lungometraggio si concentra sulla maniera in cui l’educazione di Fischer abbia contribuito alla sua paranoia dilagante (era convinto di essere costantemente sotto sorveglianza al culmine della sua carriera) e al crollo, esplorando elementi meno noti. Gli artefici, incluso lo sceneggiatore Steven Knight, hanno dedicato un’enorme quantità di energia alla ricerca e all’ideazione di una narrativa plausibile per lo sviluppo del personaggio.
La grande partita riesce a tracciare il profilo psicologico dall’infanzia al successo fino all’ossessione e alla caduta del personaggio. Il racconto non coglie ogni eccentricità di Fischer, ma sarebbe stato impossibile stipare l’intera esistenza di una persona in un film di due ore. E poi non tutte le informazioni a riguardo (ce ne sono parecchie, trattate anche da documentari) potevano essere inserite.
Bobby Fischer ebbe il merito di contribuire alla promozione del gioco degli scacchi, tanto che, all’apice della sua popolarità, l’appartenenza alla US Chess Federation raddoppiò tra il 1972 e il 1974. Oltre a esserne un autentico prodigio fin da giovane età (raggiunse lo status di Gran Maestro all’età di 15 anni), aveva un QI nel range dei 180 e una memoria fotografica. La brillante intelligenza non si limitava comunque a questo ambito. Non per niente abbandonò la scuola all’età di 16 anni, poiché la riteneva una perdita di tempo.
Tre anni dopo il successo su Spasskij, che gli valse il titolo di campione del mondo, nel 1975 dovette cedere il titolo a Karpov per forfait. Le richieste alla FIDE furono giudicate eccessive dall’organizzazione e in segno di protesta abdicò. Dunque, Fischer evitò di partecipare a competizioni ufficiali per quasi vent’anni, finché non uscì dal ritiro nel 1992, chiamato alla rivincita contro Spasskij. L’incontro ebbe luogo in Jugoslavia, suscitando diverse polemiche, poiché all’epoca l’ONU aveva elevato alla Jugoslavia un duro embargo che comprendeva sanzioni sugli eventi sportivi.
In una conferenza stampa prima dell’incontro, Fischer sputò su un documento del Dipartimento di Stato degli USA che gli proibiva di giocare negli stati balcanici a causa delle sanzioni in vigore. L’audace mossa gli costò l’incriminazione e un mandato di cattura. Da allora non rimise più piede negli States e lasciò le scene. Come racconta La grande partita, qualche elemento della paranoia di Fischer era fondato. Fin da ragazzo l’FBI lo teneva d’occhio date le simpatie politiche della madre e i continui viaggi nell’Europa orientale, oltre alle sfide con i sovietici. Al momento della scomparsa il fascicolo del Bureau era lungo 900 pagine.