La morte e l’aldilà nei cartoni Disney, da Biancaneve a Coco
Coco è il primo film Disney ad affrontare esplicitamente la tematica della morte e della perdita dei propri cari. Reduci dell'uscita dell'ultimo film d'animazione della Casa di Topolino, analizziamo il significato della morte, filosofica e metaforica, nei classici Disney
L’universo creato da Walt Disney è fatto di fiabe e sogni, ma non per questo è estraneo alla malvagità e alla negatività, né tantomeno ai concetti di morte e aldilà a riguardo dei quali i classici cartoni animati della Casa di Topolino presentano un vero e proprio codice comportamentale. In essi i momenti bui e di tristezza superano quantitativamente quelli felici e spensierati e prima di arrivare al noto e agognato happy ending i personaggi possono attraversare anche degli eventi traumatici, che portano maggiormente a una condizione d’immedesimazione da parte degli spettatori e che spesso sono il motore dell’intera vicenda.
Così peripezie, avventure e perdite sono gli ingredienti di una ricetta volta a sciogliere l’intreccio e a far uscire soddisfatti dalle sale cinematografiche adulti e piccini. A rimanere impresso non è solo il “vissero felici e contenti”, ma anche e soprattutto l’elemento tragico, spesso rappresentato dalla morte di uno dei personaggi (eroi, villain, alleati, etc.) della vicenda disneyana.
La morte e l’aldilà nei cartoni Disney
Ciò che più ci preme analizzare non sono tanto le dinamiche di queste morti, quanto il modo in cui esse vengono affrontate nei film d’animazione Disney, sia dal punto di vista narrativo (più specificatamente di filmmaking e storytelling) che da quello emotivo (ovvero come i personaggi implicati nella vicenda reagiscono alla perdita). Siamo in un mondo fiabesco per cui è necessario visualizzare la morte sì in modo verosimile, ma anche con un tocco poetico, che rende giustizia alla cornice magica in cui è situata. Per tale ragione, l'”uccisione” di molti personaggi all’interno delle fiabe Disney è stata adornata anche da un concetto di morte accompagnato, in molti casi, dal senso di rinascita, purificazione e nostalgico ricordo.
Se si pensa a Biancaneve, Peter Pan, Up, Bambi e si passano in rassegna i vari classici Disney ci si rende conto di come la morte sia onnipresente, ma il vero cambio di marcia nell’universo Disney è segnato dall’uscita di Coco (qui la nostra recensione). Il film Disney Pixar diretto da Lee Unkrich rappresenta senza dubbio il primo della casa di Topolino in cui viene affrontata esplicitamente la morte, che qui diviene la cornice dell’intera opera, ma di questo ne parleremo nel dettaglio più avanti, nel mentre andiamo per gradi e scopriamo insieme come viene trattata la morte e”filosofia della perdita” nei cartoni Disney!
La filosofia della perdita e il concetto della morte nei cartoni Disney dal 1940 al 2017
La morte apparente nei cartoni Disney: Biancaneve e i sette nani (1937) e La Bella Addormentata nel Bosco (1959)
E vissero felici e contenti. In Biancaneve e i sette nani e La Bella Addormentata nel Bosco è proprio la morte apparente a garantire il lieto fine. In questi due classici Disney sappiamo ormai bene che quando parliamo di morte intendiamo una sorta di coma indotto da una mela avvelenata nel primo caso o dal fuso di un arcolaio nel secondo caso.
Probabilmente tutti ci siamo chiesti, almeno una volta nella vita, cosa accade realmente alle due principesse nel momento in cui si avvera la maledizione lanciata dalle streghe. In realtà è impossibile dirlo con certezza, si parla di “sonno mortale” e “sonno profondo”, che possono essere infranti solo con il bacio del vero amore. Non è morte, dunque, ma un qualcosa di simile a essa, tanto che i nani in Biancaneve, prima dell’arrivo del principe, dispongono il corpo della principessa in una bara; per cui la condizione reale più vicina a questo sonno profondo è una sorta di coma. In entrambi i casi il principe è la cura: storia che ormai conosciamo a memoria.
I due classici però non sono privi della morte reale, che in tutti e due i cartoni viene garantita alle due streghe malefiche: Grimilde (Regina Cattiva) e Malefica. Non a caso le due villain muoiono realmente in un modo anche pressoché identico: precipitano da un burrone, morendo definitivamente.
La morte simbolica nei cartoni Disney: Pinocchio (1940)
Il sottile, ma allo stesso tempo profondo significato metaforico e poetico della morte, è una parte integrante di Pinocchio. Il binomio tra morte e vita pervade totalmente tutta la vicenda della fiaba, dal primo secondo fino all’ultimissimo. In Pinocchio la perdita è metafora del timore della solitudine, del perseguire la retta via e della realizzazione dei propri desideri. Il protagonista della storia non è altro che un pezzo di legno plasmato dal falegname Geppetto, il quale desidera trasformare il suo burattino in un bambino vero (in carne e ossa). Da oggetto inanimato la piccola marionetta viene trasformata in una persona vera e propria, liberandosi e fuggendo, così, dal suo stato passivo e immortale. Il tranello però è dietro l’angolo: se Pinocchio non dimostra di essere un bambino degno della vita, tornerà alla sua condizione iniziale di oggetto privo di vita.
Il tema del ricordo, però, si fa strada lentamente anche in questo classico d’animazione della Casa di Topolino. Geppetto, infatti, è vittima della cosiddetta morte simbolica, in quanto viene inghiottito dalla balena, mentre si trova in mare alla ricerca di Pinocchio, disperso tra i divertimenti lussureggianti della vita da mortale. L’ex burattino, seguendo i tranelli del Gatto e la Volpe, di Lucifero, e vagando tra i vizi del Paese dei Balocchi, ha dimenticato la figura del padre, il falegname grazie al quale gli è stata donata la vita. Una persona inghiottita da una balena morirebbe all’istante nel mondo reale, ma questa non è la sorte di Geppetto, la cui unica colpa, per essere finito nello stomaco dell’animale, è quella di essere stato dimenticato.
La sensazione di morte concreta che fa temere veramente a Pinocchio di aver perso realmente il padre, lo porta a salvarlo, venendo anch’egli ingerito dalla balena. L’ingresso nella balena, in questo caso, non si traduce con la morte nel vero senso del termine, ma con una morte rigeneratrice e purificatrice: una volta fuori dal ventre dell’animale, Pinocchio non è più il burattino che si è perso tra i divertimenti peccaminosi del Paese dei Balocchi, ma quella marionetta che ha riacceso con più intensità di prima il ricordo e il bene per il padre, tanto da salvarlo a discapito della sua stessa vita.
Nel finale del cartone viene presentata nuovamente la morte come motore rigeneratore. A morire non è l’anima di Pinocchio ma il suo involucro di legno (la sua condizione da burattino), “corpo” che indicava un Pinocchio ancorato a vizi e cattivi propositi. Il sacrificio per salvare il padre conduce Pinocchio a una nuova vita, una vita stavolta non da burattino, ma da bambino in carne e ossa.
La morte comica nei cartoni Disney: Peter Pan (1953) e Ritorno all’isola che non c’è (2002)
In Peter Pan e nel suo relativo sequel i piccoli spettatori sperimentano un senso della perdita comico e divertente, e un senso, invece, più drammaticamente fiabesco. Il primo si può notare attraverso la figura di Capitan Uncino, spaventato a morte dal coccodrillo (e nel sequel dalla piovra) che lo perseguita, dopo averlo già “assaggiato” una volta, quando Peter Pan lanciò la mano del malvagio pirata nelle fauci del rettile. Per tutte le volte che Uncino è entrato nella bocca del coccodrillo, a quest’ora doveva essere finito nel Regno dei Morti altrettante volte. In un certo senso, in questo classico la Disney si beffa della morte, raggirandola, dato che di fatto Uncino non muore mai, e in un modo o nell’altro, anche se effettivamente “viene mangiato” dal coccodrillo, riesce sempre a uscirne (un po’ come accade con Pinocchio e la Balena, solo che qui l’ingresso nell’animale, che nella realtà equivarrebbe alla morte, non simboleggia una nuova rinascita).
Nel sequel Ritorno all’isola che non c’è, a parte il fatto che il coccodrillo viene sostituito dalla piovra, ricreando le stesse dinamiche del primo classico insieme a Capitan Uncino, a rischiare la vita è la fatina Trilli (o Campanellino, come preferite chiamarla). La protagonista della vicenda è la figlia di Wendy, Jane, che non crede all’Isola che non c’è e al suo leader mai cresciuto, Peter Pan. Diffidenza e dimenticanza sono i più grandi nemici della vita. E sono proprio la mancata fede e diffidenza di Jane che mettono in pericolo la vita di Trilli, dal momento in cui la giovane protagonista pronuncia la frase: “Non credo nelle fate“. A partire da questa negazione, la vita della fatina rimane appesa al filo del rasoio; se Jane, infatti, non si ricrederà, la luce di Trilli si spegnerà per sempre, ovvero morirà.
La grande magia della Disney risiede esattamente in questa magica purezza e semplicità: nel corso dei due film d’animazione non si fa mai riferimento in modo esplicito alla morte, ma lo studio è in grado di presentare la perdita e la scomparsa in variopinte alternative. Dal punto di vista del tema della perdita e delle sue sfumature, mentre possiamo conciliare Wendy con la tematica del ricordo (Peter Pan non è mai morto/scomparso per lei perché continua a rimanere vivo il suo ricordo, anche se la ragazza è ormai diventata una donna), Jane può essere, inizialmente, associata alla negazione e mancanza di “fede” (che equivale alla morte qualora queste convinzioni persistessero).
La morte reale nei cartoni Disney: Bambi (1942) e Il Re Leone (1994)
Inutile negarlo, la morte di Mufasa è una delle più traumatiche dell’intera storia della Disney, forse insieme a quella della mamma di Bambi in Bambi, che continua a provocare tristezza anche agli adulti, inermi davanti alla perdita della figura più dolce e importante per un cucciolo, quella della figura materna appunto. Ma la perdita che vogliamo affrontare nel dettaglio è quella rappresentata in Il Re Leone che nell’ambito della tematica principe di questo nostro focus fa un passo avanti, seguendo uno schema della morte preciso e ben strutturato. La Casa di Topolino affronta due morti vere all’interno del classico Il Re Leone, una all’inizio (Mufasa) e una alla fine (Scar), come se fungessero da cornice reale alla fiaba centrale; mentre nel corso del cartone lo studio tenta di far spiegare più volte ai personaggi cosa s’intende seriamente con il concetto di morte e perdita.
Sappiamo che Mufasa muore, travolto da una mandria di gnu, per salvare suo figlio Simba. La morte appare evidente non appena Simba si avvicina al padre e non vede alcun segno di risposta da parte sua, non c’è bisogno che la Disney approfondisca le cause reali, o quantomeno mediche, della sua scomparsa. Lo stesso accade per Scar, anche se qui Rob Minkoff e Roger Allers (registi del film animato) lasciano più spazio alle libere interpretazioni: Scar muore mangiato dalle iene, per colpa del fuoco, o per entrambi?
Per quanto riguarda invece il significato della morte espresso nel corso del classico, alla domanda di Pumba su cosa siano quei lumicini lassù, riferendosi alle stelle, Simba adulto risponde “Una volta qualcuno mi ha detto che i grandi Re del passato ci guardano e ci proteggono da lassù“. Simba ha dimenticato, o meglio ha volontariamente deciso di non ricordare il suo passato, e quindi la morte del padre (negazione), lasciandosi alle spalle tutto ciò che aveva (e che ha ancora) a che fare con la sua perdita. Per Simba, Mufasa è morto davvero, perché è sparito anche il suo ricordo (permane la sua volontaria negazione del ricordo), e solo il ritorno di Rafiki gli apre gli occhi, gettando uno spiraglio di luce sulla sua memoria: “È vivo, e io te lo farò vedere!” o “Lui vive in te!”. Dal momento che Simba ricorda, Mufasa è legittimato a tornare, apparendo tramite una combinazione di nuvole nel cielo che delineano la sua forma: “Simba mi hai dimenticato, hai dimenticato chi sei e così hai dimenticato anche me“, “Ricordati chi sei!“.
Impossibile a tal proposito non trovare un collegamento diretto con la canzone di Coco, intitolata appunto Ricordami.
La morte simbolica e filosofica nella trilogia di Toy Story della Disney Pixar (1995, 1999, 2010)
Il potere simbolico e filosofico della morte, strettamente collegata alla forza del ricordo, raggiunge uno dei suoi apici maggiori in Toy Story 2 e 3. La tematica inizia a essere affrontata lievemente nel primo capitolo della saga Disney Pixar per poi ritornare in modo più incisivo in Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa e infine essere approfondita ed esplorata in tutte le sue sfaccettature in Toy Story 3 – La grande fuga. Curioso come la concezione della morte e della perdita in Toy Story sia collegato al più recente Coco da una sorta di filo invisibile, tramite l’importanza e la centralità della memoria.
La più grande paura del cowboy protagonista Woody è infatti che il suo padroncino Andy si dimentichi di lui. Nel primo film questa paura si manifesta con la comparsa di un nuovo giocattolo, Buzz Lightyear, di ultima tendenza, che potrebbe sostituire Woody nel suo ruolo da leader degli altri giocattoli. Woody teme, così, di essere dimenticato in un angolino della stanza del bambino, senza più poter vivere alcuna avventura insieme a lui. La paura di finire nel dimenticatoio, però, nel primo film viene presto accantonata, contribuendo a offrire uno svolgimento più avventuriero della trama, a favore di una narrazione incentrata sulle peripezie e sulla nascente amicizia e solidarietà tra Woody e Buzz.
La perdita del ricordo fa capolinea, con una maggiore intensità, nel secondo capitolo del franchise. Woody, dopo essere diventato grande amico di Buzz e aver accettato di condividere la sua fama da “giocattolo preferito di Andy” insieme a lui, sta per rompersi un braccio; piccolo incidente tecnico che porta il proprietario un po’ più cresciuto a lasciare il cowboy a casa durante il suo soggiorno al Campo estivo dei cowboy, e a posizionarlo sul temuto scaffale. Lo scaffale rappresenta una sorta di limbo su cui vengono lasciati i giocattoli ormai rotti, o con qualche guasto, prima di finire nella scatola degli oggetti vecchi destinati al mercatino. Più il proprietario cresce, dimenticandosi di loro, più i personaggi tendono a perdere la loro anima e il vero obiettivo della loro vita (ovvero la soddisfazione del proprietario).
Woody inizia a comprendere la dura e cruda realtà della sua esistenza quando fa la conoscenza degli altri amici del West (la cowgirl Jessie, il cavallo Bullseye e il cercatore d’oro Stinky Pete) e scopre le loro rispettive storie. Metaforicamente, il momento in cui il proprietario non ricorda più i giocattoli, inserendoli in uno scaffale per abbandonarli, o venderli, corrisponde alla loro morte (emotiva, non fisica). Tale “morte”, però, può anche indicare una rigenerazione e talvolta una nuova vita. Infatti, la stessa Jessie, nel corso di Toy Story 2 esclama: “Vale la pena vivere anche se c’è un solo bambino che ti ama“. Morte, ricordo ed emotività ancora una volta strettamente connessi.
In Toy Story 3 il momento più temuto è giunto. Andy ha 17 anni ed è l’ora di partire per il college. Differentemente dai suoi coetanei, il ragazzo è ancora affezionato ai compagni d’avventura della sua infanzia, ma al tempo stesso non può portarli con sé al college. Mentre gli altri vengono messi in un sacco della spazzatura da conservare in soffitta, Andy decide di portare con sé, in questa sua nuova avventura, il fedele compagno e amico Woody. Il fato, o meglio la Disney, vuole che la madre di Andy getti il sacco, scambiandolo per vera spazzatura. I giocattoli, dunque, convinti di essere finiti nel tragico e malvagio dimenticatoio, decidono di accettare la propria fine, lasciandosi trascinare dal camion della nettezza. Ma è solo nel finale, dopo varie peripezie, che il ricordo si manifesta in tutta la sua potenza. È lo stesso cowboy che si rende conto che la loro presenza può far felice un altro bambino/a e suggerisce ad Andy, tramite un biglietto, di donare i giocattoli a un’altra persona.
Così il proprietario accetta, decidendo di tenere per sé Woody, che però s’infila volontariamente nello scatolone insieme agli altri. In questo caso gli amici materiali che abbiamo imparato a conoscere nel corso dei tre film non moriranno mai, perché Andy li ricorderà per sempre, custodendoli affettuosamente nel suo cuore e nella sua mente. I giocattoli potranno anche iniziare una nuova vita con la nuova proprietaria, ma continueranno anche a vivere per sempre in quella di Andy, nonostante non siano più fisicamente con lui.
La morte tragica ma che dona coraggio in Up (2009)
Probabilmente UP è una delle opere Disney Pixar che descrive con più maturità e presa di coscienza la tematica della morte e della perdita. Il più grande desiderio di Carl, fin da bambino, è quello di avventurarsi tra le bellezze del mondo, un sogno di esplorazione che in età adulta condivide poi anche con la moglie Ellie, desiderosa di poter visitare un giorno le rinomate Cascate Paradiso in Venezuela. Purtroppo, proprio quando Carl sta per dare alla moglie i biglietti che realizzeranno il loro sogno, Ellie si sente male e muore.
La morte in questo caso è perdita nel vero senso del termine, la forza motrice che, dopo vari ripensamenti, dubbi, e volontà d’isolamento, porterà Carl a raggiungere l’obiettivo di arrivare alle tanto agognate Cascate. Qualche anno dopo, infatti, è proprio la mancanza della moglie a dare coraggio a Carl, e indurlo a fare quello che non avrebbe mai fatto da solo: trasformare la propria casa in un caravan viaggiante e partire alla volta del Sud America. L’anziano decide di portare con sé l’intera casa proprio perché possiede tutti i ricordi della vita trascorsa insieme alla moglie, e quindi è come se lei fosse lì con lui fisicamente a vivere il proprio sogno. Solo alla fine, in condizioni estreme, Carl è disposto a sacrificare la propria casa, la cui scomparsa materiale non significa la scomparsa del ricordo, vivo più che mai nel protagonista così come il ricordo della moglie.
Un nuovo amore contrasta la morte nei classici Disney: Frozen (2013)
La perdita si manifesta più volte nel corso di Frozen. Il primo approccio con la paura della perdita arriva proprio nei minuti iniziali del film d’animazione, quando un’Elsa bambina colpisce involontariamente la sorella Anna con i suoi poteri di ghiaccio. Il pubblico è in apprensione per la salute della piccola Anna, come lo è anche la sua famiglia, finché la sorella minore non viene guarita da un gruppo di Troll, che intimano ai genitori di insegnare ad Elsa a controllare i suoi poteri.
La seconda manifestazione della morte si presenta in modo concreto, attraverso la perdita dei genitori di Elsa e Anna. La Disney, però, come da tradizione, non spiega esattamente com’è avvenuta la tragedia, ma si avvicina a essa accennandola, spiegando e mostrando indicativamente che la coppia è rimasta vittima di un terribile naufragio.
Nella sua terza manifestazione, la morte appare in maniera giocosa e anche ironica, ed è relativa proprio al personaggio di Olaf, un piccolo pupazzo di neve creato da Elsa dopo la sua fuga da Arendelle. Essendo un pupazzo di neve, il tenero personaggio può sopravvivere solo in condizioni di gelo, per cui non è una sorpresa il fatto che, quando si trova accanto a fonti di calore, oppure cambia stagione, si sciolga. La Casa di Topolino possiede l’innata abilità di far affezionare il pubblico a dei personaggi in pochissime ore, quindi vedere Olaf sciogliersi è fonte di una particolare tristezza (soprattutto considerando che uno dei più grandi desideri del pupazzo di neve sia vivere l’estate, cosa abbastanza improbabile data la sua condizione). Figurativamente, e idealmente, lo sciogliersi di Olaf corrisponde alla sua scomparsa, e alla sua definitiva assenza. Per fortuna, però, c’è Elsa, che con l’aiuto di una nuvoletta di neve permette a Olaf di mantenersi sempre intatto, in qualsiasi stagione e in qualsiasi condizione atmosferica, vincendo il concetto di morte.
La quarta manifestazione della morte compare riallacciandosi al primo caso sopracitato: Anna è in pericolo di vita, a causa del getto di ghiaccio lanciato da Elsa. Stavolta, però, il rischio della perdita appare attraverso una modalità più preoccupante, dato che la sorella minore viene colpita dritta al cuore. La trama centrale del film d’animazione si sviluppa proprio intorno al salvataggio di Anna, la cui salute peggiora irrimediabilmente, e che stavolta non può essere salvata dai Troll, ma solo da un atto di vero amore. L’atto di vero amore, ormai noto agli affezionati Disney, torna prepotentemente anche nella nuova fase cinematografica dello studio. Magari potessimo davvero salvare i nostri cari con un solo atto d’amore! Nella realtà, se mai esistessero poteri di ghiaccio che minacciano la vita delle persone, Anna sarebbe spacciata, visto che alla fine il getto di ghiaccio si estende in tutto il suo corpo, rendendola una statua. L’atto di vero amore, però, risolve il dilemma, così come in altri classici precedenti, ma manifestandosi sotto spoglie diverse: non è più il bacio del principe a svegliare/salvare la principessa, ma l’affetto e l’amore della sorella.
Per saperne di più sulla perdita d’importanza del principe, vi suggeriamo di leggere questo articolo: Principesse Disney: oltre il principe azzurro c’è di più
La morte da eroe nei cartoni Disney: Big Hero 6 (2014)
Uno dei più recenti gioielli della Casa di Topolino, che con la sua essenzialità e purezza ha conquistato la maggior parte della critica e dell’opinione pubblica. In Big Hero 6 facciamo i conti con la perdita proprio all’inizio del film, in quanto il protagonista, Hero, perde il fratello nel corso di un incendio scoppiato all’interno dell’università di San Fransokyo. La morte qui viene presentata attraverso interessanti sfaccettature. La storia si sviluppa proprio dalla morte del fratello di Hero, una morte da eroe, dato che il ragazzo si sacrifica per salvare il professore che poi scopriremo in seguito essere l’artefice di tutto. Nonostante entriamo in contatto con il fratello per pochissimo tempo, rapportato alla durata complessiva del film, abbiamo modo di conoscerlo e familiarizzare con lui attraverso il ricordo di Hero, e in particolar modo attraverso un regalo/progetto da lui creato, chiamato Baymax, e per questo considerato una sorta di figlio di Tadashi.
Il protagonista all’inizio tenta di assimilare la morte con difficoltà, rinchiudendosi tra le quattro mura della sua camera, impedendo qualsiasi relazione sociale e rifiutando di andare all’università in cui è stato selezionato. Il suo umore, però, migliora notevolmente quando, inaspettatamente, la creazione di Tadashi fa capolinea dalla sua porta, restituendogli una parte dello stesso fratello. In questo caso, ciò che fa la Disney, è rimpiazzare metaforicamente Tadashi (personaggio in carne e ossa), con un suo riflesso, ovvero Baymax. Questo porta gli spettatori a credere che al fianco di Hero, nell’avventura vissuta nel corso del film, ci sia sì Baymax fisicamente, ma anche lo stesso fratello, simbolicamente. Più volte lo stesso Baymax tenta di consolare Hero dicendo: “Tadashi è ancora qui”, per poi mostrargli una serie di video che spiegano come Tadashi abbia prodotto il robot.
Mentre la morte del fratello è una morte reale, in cui comunque il ricordo dello scomparso continua a vivere in Hero e negli amici, così come anche negli spettatori per traslazione, un’altra “morte” viene confezionata alla maniera Disney. Stiamo parlando di quella della figlia del Professor Callaghan, partecipante di un esperimento fantascientifico basato sulla riuscita del teletrasporto. La nostra tecnologia reale non è arrivata ancora a questi livelli, ma presupponiamo che, se mai giungessimo a questa realtà, difficilmente una persona che si perde in un portale, entrando in un’alternativa dimensione spazio-temporale, ne uscirebbe viva. Eppure, contro ogni aspettativa, scopriamo alla fine del cartone che la figlia del professore non solo non è morta, ma vaga dormiente in questo alternativo spazio-temporale: la conferma che, ancora una volta, morte reale e morte simbolica Disneyana coesistono.
Il fantasma della nonna in Oceania (2016)
Se ricordate, il personaggio destinato a essere accolto dalla morte è una persona particolarmente vicina alla protagonista Vaiana, ovvero la nonna. Quella nonna che, fin da quando era piccola, le ha trasmesso la passione per la navigazione e per l’oceano, raccontandole l’antica leggenda del Semidio Maui. Nuovamente, sembra che la perdita sia indispensabile da affrontare nei film Disney per poter realmente sviluppare la vicenda e far perseguire al personaggio principale la propria missione. La salute della nonna inizia a peggiorare alla vigilia della partenza della protagonista, spinta proprio dall’anziana donna a lasciarsi la sua idilliaca isola morente alle spalle.
Il ricordo funge da componente fortemente essenziale in questa nuova perla della Disney. È proprio vero che i nostri cari continuano a rimanere in vita, finché rimane vivo il loro ricordo in coloro che sono ancora in vita. La perdita in Oceania è trattata attraverso una serie di riferimenti simbolici, strettamente connessi alla memoria e al ricordo. Nonostante sia morta, l’apparizione della nonna di Vaiana alla fine del film, quando la protagonista sta per perdere le speranze e tornare a casa, non è che la concretizzazione del ricordo dei nostri cari perduti. Tendenzialmente, la nostra cultura ci porta a credere che le persone care che abbiamo perso, continuino a rimanere al nostro fianco; questa idea viene resa in Oceania mediante la materializzazione visiva della nonna sulla zattera (con tanto di abbellimenti grafici tesi a sottolineare la sua essenza evanescente e astratta), pronta a sostenere, così come all’inizio del film, la nipote a raggiungere il suo obiettivo.
Al tempo stesso, Oceania pone l’accento sulla morte della Terra, quella stessa Terra che simbolicamente si riferisce alla nostra, continuamente martoriata e devastata dall’intervento degli esseri umani. In Oceania assistiamo a una personificazione della Terra, che diventa un vero e proprio personaggio, con un nome e una fisicità: l’isola Te Fiti, rappresentata da una bellissima e fiorente donna (una sorta di Madre Natura). Con fare fiabesco, la Disney crea una suggestiva metafora per far comprendere ai più piccoli quello che sta succedendo al nostro Pianeta, proprio a causa delle azioni umane: il semidio Maui decide di rubare il cuore dell’isola per donarlo all’umanità, in modo tale che quest’ultima possa creare nuove vite. Di conseguenza, l’isola si ribella, trasformando la sua prosperità e bellezza in una terra arida, morente, e vendicativa, diventando il demone di lava, Te Kā. Solo dopo che Vaiana riconsegna il cuore alla sua vera proprietaria, Te Kā torna a essere la rigogliosa Te Fiti.
Il regno dei morti è pieno di gioia nel film d’animazione Disney Pixar Coco (2017)
Come abbiamo già detto nell’incipit e nella nostra recensione, Coco è in assoluto il primo film d’animazione Disney che tratta la morte in maniera centrale e lo fa con brio, ambientando la storia in Messico durante quello che è considerato il giorno più felice della tradizione messicana, il Día de Muertos. Il piccolo Miguel si ritrova nell’Aldilà dopo aver rubato la chitarra del grande cantante Ernesto de la Cruz. Il suo sogno è infatti diventare un musicista, ma la sua famiglia glielo vieta poiché a causa della musica la sua trisavola si trovò ad essere abbandonata dal marito e dovette cavarsela da sola.
Il viaggio del protagonista nella terra dei morti è tutt’altro che orrorifico. La Disney, infatti, dipinge un mondo coloratissimo e festoso, accessoriato di ogni comfort e caratterizzato da case, spettacoli, mostre d’arte. Un mondo parallelo a quello dei viventi, ma abitato dai morti. Con questa esperienza Miguel trova il modo di incontrare la sua famiglia, quella che fino a quel momento ha conosciuto solo in foto, e di capire come sono andate davvero le cose.
La morte rappresentata in Coco è così legata essenzialmente al ricordo e all’importanza di non dimenticare chi ci ha amato e ha fatto parte della nostra vita. L’aldilà ideato da Lee Unkrich e Adrian Molina è un non luogo indefinito, un posto in cui si va dopo la morte ma nel quale non si rimane per l’eternità. Ha spiegato il regista:
Era molto importante per noi realizzare una rappresentazione della terra dei morti che fosse quanto più simile alla rappresentazione messicana del Día de Muertos ed era anche importante far capire che quella non era la destinazione finale perché, essendo un film che sarà visto da tante persone con credenze diverse, volevamo lasciargli spazio per immaginare [il loro aldilà]. Quando le persone vengono dimenticate muoiono una seconda volta e il posto in cui vanno è un mistero perché vogliamo che resti tale.
Coco dunque si riallaccia semanticamente ad altri film d’animazione Disney, in esso ricorrono l’importanza del ricordo e il dolore della perdita ma soprattutto la paura di essere dimenticati, che si traduce nella scomparsa fisica e nell’impossibilità di dialogare con i propri cari. Per il modo in cui la tematica della morte viene affrontata il film Disney Pixar si configura in assoluto come quello più esplicito e adatto a ogni credenza e religione, poiché tutti abbiamo perso qualcuno e tutti siamo destinati a morire e, nonostante possiamo credere in tante cose diverse, ognuno di noi cerca sempre nel profondo del cuore di lasciare un segno nella vita altrui e allo stesso tempo è segnato dal passaggio di qualcun altro.
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