La pelle che abito: il significato del film di Pedro Almodóvar
La pelle che abito è un'opera "transgenica", un thriller psicologico d'amore e d'odio, un dramma che fa sorridere di quei sorrisi almodovariani grotteschi e dolorosi che prorompono anche quando il dolore toglie il respiro.
Ci sono registi che sono porto sicuro, amici che consolano, e in essi trovi rifugio; ci sono film che scaldano e ristorano; Pedro Almodóvar è uno di questi. Il cineasta spagnolo ha una sua grammatica, un suo lessico, una sua poetica fatta di temi e colori ripetuti, di topos letterali che tornano: donne e amore, violenza e rinascite, cambi di sesso e vendetta. Robert Ledgard/Antonio Banderas, chirurgo estetico, è solo, ha perso moglie e figlia e vuole costruire una pelle resistente a tutto proprio in virtù delle tragedie che ha subito (la prima ustionata, la seconda violentata). Per completare il suo piano decide di rapire lo stupratore della figlia, Vincente, e vendicarsi trasformandolo in una donna, con i tratti della moglie. Vera/Elena Anaya, una bambola di pezza, è ricostruita, protetta, amata e idolatrata da Ledgard – tornano in mente gli uomini di Parla con lei – che l’ha rinchiusa in una stanza, la controlla e la protegge ma in realtà la tiene segregata. Questo racconta La pelle che abito – che ha esordito al Festival di Cannes 2011 –, il film di Pedro Almodóvar, liberamente tratto da Tarantula di Thierry Jonquet.
La pelle che abito: la storia di una violenta e incomprensibile ossessione
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Ledgard – uno dei tipici uomini, assieme a Vincente e a El Tigre, violenti, sbagliati – ama e per questo è disposto a compiere qualsiasi cosa e ciò che ne viene fuori è un racconto cruento e spaventoso di un uomo che per vendicarsi compie una violenza inimmaginabile. Il protagonista è ossessionato da quella Lei, dal corpo di lei, dalla moglie, morta tanti anni prima, dalla figlia, violentata dall’uomo che poi diventa nelle mani del chirurgo una cavia, rapito e torturato. Il corpo della donna, imprigionata in una tutina fasciante/corazza, come una ballerina di Pina Baush, rinchiusa nella stanza è stato violato, ricostruito, soppesato come un animale da laboratorio.
Il regista ci porta sul lettino su cui Ledgard ha costruito, plasmato, toccato le rotondità di Vera, e così prende forma sotto le esperte mani la copia dell’originale. La donna “sotto vetro” acquista le sembianze della moglie come in una sorta di La donna che visse due volte ma ancor più macabro, e Robert ammira dagli schermi che ha in tutte le camere della sua meravigliosa casa, quel capolavoro, tutto corpo, una Venere di Urbino, perfetta sul divano, mentre fa yoga, mentre straccia abiti femminili – come per rinnegare le nuove sembianze – realizzando sculture simili a quelle di Luise Bourgeois (pezzi ritagliati e ricostruiti proprio come le foto di Gli Abbracci spezzati). Noi, proprio come il chirurgo, la osserviamo, la spiamo e lei lo sa e si fa ammirare, si mostra e in questa relazione emerge a poco a poco la vera dinamica tra i due fatta di vendetta, di dolore e di sofferenza repressa.
La pelle che abito: l’arte del guardare
Il guardare, questa è una delle azioni che più si fa nel film di Almodóvar: Ledgard spia Vera, Marilia/Marisa Paredes, legata ad una sedia, assiste inerme allo stupro che El Tigre compie ai danni di Vera, attraverso lo schermo – proprio come in Légami! -, Vera cerca di vedere, scoprire il suo nuovo mondo – leggasi anche CORPO – e così capire dove è la falla da cui può uscire. Dal guardare dipende una importante dicotomia del film: il dentro e il fuori, l’interno e l’esterno, dicotomia che travalica i confini corporei, sessuali e transgenici. Vera ad un certo punto capisce la strada che deve prendere, la mente è il “luogo”, lì può essere se stessa, libera, indipendente, lì può rifugiarsi in quella “stanza” senza pareti ma isolata e tutta sua.
La testa è quella stanza “tutta per sé”, è il posto inviolabile e inviolato – non è come il suo corpo che l’uomo ha barbaramente “depredato”, togliendo e aggiungendo, distruggendo e creando. Nella testa lei può essere chi vuole, può vivere seguendo la sua identità vera, reale che si scontra con il suo fisico, morbido, fatto di rotondità e curve. Il cortocircuito avviene quando si (ri)vede sul giornale e desidera ardentemente la vendetta; la vittima inizia a pensare e decide il suo piano: far credere a Robert di essere innamorata di lui, di desiderarlo tanto tanto lui desidera lei e il corpo diventa veicolo di menzogne – e, di nuovo, di ricostruzione di una storia. Quei pezzi tagliati e rimessi insieme non sono più rappresentazione del “nulla”, di una totale mancanza di identità; Vera ora esiste, c’è, non è più un manichino desiderato ma è una testa che pensa.
Tutto si rimette al suo posto; il corpo/la pelle, la forma/l’essenza, tutto gira intorno al (soprav)vivere. C’è un nuovo involucro ma è impossibile cancellare i torti, le violenze subite; e non è un caso che il passato torni potente – con vari flashback. Riemerge la triste storia della moglie di Robert, morta due volte, quella della figlia, stuprata – azione perpetrata da Vincente e che poi ricade su di lui, come una legge del contrappasso quando diventa donna – nel primo giorno di libera uscita dalla struttura in cui era ricoverata.
Un film che rientra alla perfezione nella cinematografia di Almodóvar
La solitudine e la follia, il corpo e l’identità, ia sessualità agita, desiderata, esagerata e l’interiorità che ha una “vita” tutta sua, il dolore per ciò che non si ha più e la capacità di andare oltre al dolore. Sono queste le azioni, le forze, i sentimenti attorno a cui si costruisce, si modella e nasce la storia di Robert e quella di Vera, ma anche in senso lato tutto il cinema di Almodóvar. La pelle che abito è un’opera “transgenica”, un thriller psicologico d’amore e d’odio, un dramma che fa sorridere di quei sorrisi almodovariani grotteschi e dolorosi che prorompono anche quando il dolore toglie il respiro. Tra scambi di sesso, fratelli che non sanno di essere tali, amori complicati, prigionie e ossessioni, il corpo stuprato in ogni senso, perquisito e adorato, lo schermo come mezzo di “spionaggio” si srotola un poema che rientra nella lingua struggente e ironica di Almodóvar.