La scelta di Anne: la storia vera dietro al film di Audrey Diwan
Dietro il film vincitore del Leone d'oro all'ultimo festival di Venezia due storie di aborti: quello, clandestino, della scrittrice Annie Ernaux e quello affrontato, in tutt'altre condizioni, dalla regista Audrey Diwan.
Da due esperienze autobiografiche muove il film vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, distribuito in Italia con il titolo La scelta di Anne, che, anziché tradurlo, per un’oscura bizzarria sostituisce fino a cancellare l’originale L’événement (in italiano, “L’evento”): nel film, ambientato undici anni prima che la Francia, grazie alle lotte politiche di Simone Veil, approvasse la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza entro le dodici settimane, la dimensione dilemmatica della scelta è, infatti, del tutto assente in quanto la protagonista non valuta due opzioni, non prende mai in considerazione la possibilità di portare avanti la gravidanza giunta inattesa, ma è anzi estremamente determinata fin da subito ad abortire per non sacrificare prematuramente i suoi obiettivi professionali – insegnare; scrivere – e intellettuali.
Il centro del film è, in fondo, proprio questa determinazione e la fatica che costa alla protagonista far comprendere (e accettare) agli altri che desiderio e maternità possono trovarsi disallineati, separati da una distanza che nessuna legge ostativa potrebbe mai annullare o anche solo ridimensionare.
L’aborto clandestino di Annie Ernaux, avvenuto undici anni prima della legge Veil
La prima delle due esperienze alla base del film è quella, ricostruita in ordine rigorosamente cronologico, settimana dopo settimana, di Arnie Ernaux, l’autrice del libro omonimo da cui il film è tratto: nel 1964, a ventitré anni, studentessa di Lettere prossima a laurearsi, si ritrova incinta a seguito di una breve relazione con uno studente di Scienze Politiche, ma non ha intenzione di tenere il bambino.
Nata nell’estrema provincia normanna, proveniente da un famiglia di condizioni modeste, figlia di genitori che, dapprima operai, sono riusciti solo con grande sforzo a ottenere in gestione una piccola caffetteria, Annie ‘Anne’ Ernaux, nata Duchesne, mostra fin da piccola inclinazioni intellettuali e passione per lo studio. Dimostratasi una studentessa brillante alle scuole superiori, riesce a farsi ammettere prima all’Università di Rouen e poi di Bordeaux, dove entra in contatto con coetanei di estrazioni sociali più elevate, che spesso e volentieri la guardano dall’alto al basso.
Diventare madre prima di poter portare a compimento il percorso di studi per lei significa, dunque, soltanto una cosa: rinunciare alla possibilità di accedere a quella società che la disprezza, nel mondo borghese e colto da cui viene giudicata non per il suo valore ma per la sua origine proletaria, un mondo nel quale, sebbene non intenda uniformarsi, aspira a entrare per sottrarsi al destino di privazione toccato alla madre e alla sua famiglia tutta. Da lì, da quella certezza, la sua determinazione ad andare fino in fondo e, dopo aver ricevuto il rifiuto di due medici, la decisione di affidarsi a una donna esperta in pratiche abortive illegali.
Una storia vera di riscatto sociale minacciata dallo spettro della maternità indesiderata
Nel film la consapevolezza di classe della protagonista, pur non oggetto di sottolineatura, viene evocata in modo tanto fugace quanto potente in più occasioni: il ragazzo che l’ha messa incinta, dopo averla invitata per una breve vacanza credendo si fosse già ‘sbarazzata’ del bambino, le rimprovera di avergli creato problemi, per via del suo comportamento poco accomodante, con i suoi amici facoltosi; la madre viene mostrata più volte a consumarsi le mani mentre sgrassa stoviglie e, come unica fonte di sollievo dalla fatica del lavoro operaio, non ha che qualche minuto per ridere di una barzelletta alla radio; un amico, non appena viene a conoscenza della sua gravidanza, non esita a tentare un approccio sessuale perché ai suoi occhi Anne ha ormai assunto la posizione della popolana senza remore a concedersi sessualmente.
Se la scrittura di Ernaux è secca e priva di ripiegamenti soggettivi, e cioè si sposta dal piano dell’io a quello del noi, universalizzando la vicenda radicata nell’esperienza autobiografica, la regia di Audrey Diwan segue lo stesso movimento di scivolamento dall’esperienza personale a discorso collettivo.
La realtà è rappresentata attraverso la lente soggettivizzante della percezione che la protagonista ha di quanto le accade, mediante un gioco continuo di messe a fuoco e sfocature in cui la camera scorre a raso pelle, aderente a corpi pieni e autentici, per natura ‘sessuali’, ma mai sessualizzati.
Proprio perché il punto di vista resta dall’inizio alla fine quello di Anne, il film riesce a raccontare la storia per ciò che (oggettivamente) è: un caso di dolore inevitabile – il confronto con qualcosa che non si desidera e, tuttavia, incombe – a cui si aggiunge il dolore ‘inutile’ dell’umiliazione, della solitudine e del pregiudizio condiviso che, non solo annulla la libertà, ma costringe a sfidare la morte.
La scelta di Anne nasce anche dall’esperienza di aborto vissuta dalla regista
La ragione per cui la franco-libanese Audrey Diwan, scrittrice prima ancora che regista, ha deciso di mettersi a lavorare all’adattamento cinematografico di un libro ambientato in un’epoca precedente all’introduzione della legge sull’aborto risiede nella doppia valenza di testimonianza storica e di sollecitazione politica che la vicenda lì raccontata assume in un presente in cui ancora il diritto all’aborto viene problematizzato (se non osteggiato); eppure, la volontà di fare del libro un film nasce anche dall’esperienza d’aborto che la regista stessa ha affrontato.
In una recente intervista concessa a Stefano Montefiori del Corriere della Sera, Audrey Diwan non ha, infatti, mancato di sottolineare come la lettura del testo autobiografico di Annie Ernaux l’abbia fatta riflettere sulla fortuna di vivere in un tempo in cui l’aborto è legale e in cui una donna può scegliere, senza mettere in pericolo la propria vita, se accogliere o rifiutare la maternità: “Quando ho abortito, ho avuto voglia di riflettere sulle cose, ogni fatto che marca una vita merita di essere pensato, e un’amica mi ha consigliato di leggere “L’evento”. Mi ha scioccato per due ragioni: intanto ho capito quanta fortuna ho avuto a potere abortire in un Paese dove era legale. Non ho messo in pericolo la mia vita, non sono stata costretta a mettermi dei ferri da calza nel corpo. Poi, ho compreso l’immensa distanza che c’era tra quel che pensavo essere un aborto clandestino e la realtà, che è molto più dura”.