La scuola cattolica ha fallito, proprio come la serie Circeo, ecco perché
Nel giro di un paio d'anni sono stati realizzati un film e una miniserie sul massacro del Circeo, entrambi ora disponibili su piattaforma. Eppure, nessuno dei due prodotti riesce a essere del tutto incisivo.
La scuola cattolica, discusso film del 2016 di Stefano Mordini tratto dall’omonima opera di Edoardo Albinati, è attualmente disponibile alla visione su Netflix. Agli abbonati a Paramount + è invece destinata la miniserie Circeo, diretta da Andrea Molaioli, prossimamente anche nel palinsesto Rai. I due prodotti, da prospettive diverse, quasi opposte, elaborano una rappresentazione di uno dei fatti di cronaca più efferati del secondo Novecento. Entrambi mancando il punto.
La scuola cattolica: vuoto educativo o educazione al vuoto?
La scuola cattolica adatta a film il libro omonimo, Premio Strega nel 2016, di Edoardo Albinati (Roma, 1956): opera-monstre che mescola romanzo, memoir, autofiction in un impasto voluminoso di (ri)narrazione, meditazione e cronaca. Albinati parte dalla sua autobiografia: anche lui ha studiato nella stessa scuola privata, d’impostazione cattolica, frequentata dai tre ragazzi colpevoli di aver massacrato Rosaria Lopez (rimasta uccisa) e Donatella Colasanti, nella villa del Circeo di uno di loro, in una notte di fine settembre del 1975. Nel testo letterario, la “scuola cattolica” reale – l’Istituto San Leone Magno nel quartiere Trieste – è tuttavia coperta da un nome fittizio: Istituto privato San Luigi. Sebbene riconosca la matrice della violenza nella personalità disturbata dei tre artefici, Albinati s’interroga sulle cause e concause pedagogiche e sociali che hanno rappresentato la precondizione ambientale affinché avvenissero l’aggressione delle due ragazze e l’assassinio di una delle due. La sua operazione è simile a quella compiuta, al cinema, da Michael Haneke ne Il nastro bianco: l’indagine dell’origine del male nazista attraverso la rappresentazione delle grammatiche repressive interiorizzate, nell’infanzia, dalla generazione maggiormente implicata nel dirottamento totalitario della democrazia tedesca.
Dell’opera – data la sua natura magmatica e ibrida, impensabile darle una definizione – da cui proviene, nel processo di condensazione della materia narrativo-saggistica, La scuola cattolica perde purtroppo quasi tutto: Mordini piega il mezzo alla rievocazione dell’atmosfera raggelante in cui carnefici del massacro (e i loro pari) hanno agito. Il suo è un film di suggestione, efficace nel comunicare una certa vacuità del vivere, uno strano mélange tra anaffettività, indifferenza moraviana e perbenismo congestionato, eppure si rivela manchevole rispetto all’incisione delle purulenze più gravi: il rapporto con il sentimento politico del tempo; la mascolinità esasperata e la misoginia come risposte all’incertezza identitaria e all’impossibilità di accettare un disallineamento rispetto a un’aspettativa di piena rispondenza alle leggi non scritte della virilità.
I continui test a cui, come il film in parte mostra, i protagonisti della storia sottopongono la loro capacità di aderire ai termini in cui configurano la questione di genere – sono o non sono un maschio? – rappresentano la prova di un sentimento di inadeguatezza che non trova forme di elaborazione al di fuori della scarica pulsionale o del sadismo scimmiottato e, quel che peggio, attuato e inavvertito. Se qualcosa, di tutto questo, La scuola cattolica sfiora, lo fa incidentalmente, per sovrappiù, senza intenzionalità. Stupisce che, al momento della sua uscita nelle sale, si sia discusso sull’opportunità di un divieto ai minori di diciotto anni, perché il film non mostra contenuti violenti cesellati graficamente e l’unica violenza che compare è quella che è in grado di ispirare sotto pelle, come reazione a un’impressione di freddo.
Resta fuori fuoco la questione del clima politico in cui la vicenda s’inserisce: le due ragazze seviziate provengono dalla Montagnola, un quartiere popolare della città, mentre i loro aguzzini sono rampolli della Roma bene, appartengono a famiglie rispettabili che hanno instillato loro la legittimazione, per mezzo del privilegio economico, di una superiorità che si traduce spesso in un sentimento di grandiosità, finanche onnipotenza, di inviolabilità dello status, di un’intima persuasione di impunità. La differenza di classe tra vittime e aguzzini sia approfondisce la distanza, che la violenza perpetrata intende platealmente, in modo grossolanamente perentorio, ribadire, che vi è tra loro – i ragazzi della Roma bene vogliono avere la certezza di essere al di sopra delle due vittime, non solo perché sono maschi, ma anche perché membri della parte sociale sociale dominante – sia riproduce il conflitto politico che infuria fuori, nelle strade, tra incarnazioni neofasciste e agitazioni di senso contrario. Eppure, le psicologie dei personaggi, quali espressioni soggettive in un contesto di vuoto educativo – e di educazione al vuoto – e di divisione sociale e paura dell’altro (di sé nell’altro), non riescono mai ad emergere nel film come direttamente determinanti l’atto violento: questo pare quasi scaturire dal nulla, fenomeno autogeneratosi.
Circeo: il massacro in prospettiva femminista. Ma Tina Lagostena Bassi si fa personaggio troppo marginale
La miniserie Circeo, diretta da Andrea Molaioli, disponibile per gli abbonati su Paramount, ricostruisce il massacro dal punto di vista della vittima superstite: Donatella Colasanti. La segue soprattutto nelle fasi successive all’aggressione e allo stupro subiti. Introduce un personaggio di finzione, l’avvocata Teresa Capogrossi, interpretata da Greta Scarano, che affianca, nella difesa degli interessi di Donatella, l’avvocata Tina Lagostena Bassi, figura capitale del Novecento per l’impegno femminista. Lagostena Bassi, oltre che avvocato difensore della Colasanti, negli anni Settanta, fu tenace sostenitrice della necessità di modificare la legge che vedeva nello stupro un crimine contro la morale e non contro la persona.
Nelle sue celebri arringhe in difesa di vittime di stupri, era solita evidenziare con un’eloquenza asciutta, senza troppi ricami retorici, quanto, anche all’interno di un tribunale, fosse consolidata, da parte degli avvocati difensori, la prassi di trasformare la vittima in imputata e di ricercare nei suoi comportamenti, e non in quelli del suo stupratore, elementi di incongruenza e colpevolezza. Tale atteggiamento, volto a svilire chi ha subìto uno stupro e a riaffermare implicitamente il sospetto che sia in parte responsabile di ciò che ha subìto, rivelava la complicità tra uomo di legge e uomo abusante in nome della comune appartenenza al genere maschile e della comune concezione squalificante della donna: del resto, se un uomo stupra una donna è perché la reifica, disumanizzandola, e, d’altra parte, se un avvocato, in un tribunale, rifiuta di riconoscere l’illegittimità di questa mentalità, è perché pensa ugualmente che sia legittimo poter usare una donna come si usa un oggetto, nell’indifferenza della sua volontà.
In Circeo, Andrea Molaioli sia marginalizza il personaggio reale per concentrarsi su quello di finzione, indebolendo così la ricostruzione di un momento di presa di coscienza collettiva dell’urgenza di ripensare le gerarchie sessuali e di restituire dignità alla persona lesa, alla sua viva carnalità in opposizione all’astrazione della morale, sia didascalizza in modo asfitticamente compilativo la fiction, depotenziandola nelle sue prerogative immaginative e nella sua vocazione ad andare al di là dell’esteriorità e del dettato, alla ricerca di una verità poetica meno percettibile e meno immediatamente codificabile secondo le griglie dell’elaborazione del dato oggettivo. Il massacro del Circeo è uno degli episodi della nostra storia recente che più ha prodotto un cambiamento sociale a partire da una reazione emotiva: si tratta di un fatto che aprirebbe, dunque, a investigazioni multiple, dalla ricerca delle cause psicologiche, pedagogiche e ambientali all’interpretazione in chiave politica, ma né La scuola cattolica né Circeo sembrano sapere bene cosa, di quel terribile evento, sono in grado di rivelare con uno sguardo libero dall’obbligo di insegnare qualcosa o di non tradire la densa monumentaltà dell’altrui ricerca.