La Stranezza: spiegazione e analisi di un film dal successo inaspettato
La stranezza, di Roberto Andò, è il film più visto dell’autunno. Perché merita il successo che ha e come stabilisce un dialogo raffinato, ma fruibile con la poetica pirandelliana.
Miglior incasso della stagione per La stranezza di Roberto Andò (Palermo, 1959): a quasi un mese dal debutto riempie ancora le sale e il passaparola non s’arresta. Che cos’ha di speciale questo film su Pirandello dedicato dal regista al suo maestro Leonardo Sciascia? Tutto il teatro che c’è dentro. E attori in controllo del loro sapere sul personaggio. Perché la persona esiste solo se si fa personaggio, ma, facendosi personaggio, smette di esistere. E allora qual è la soluzione? Soltanto la pazzia, abbandono al ‘reale’ delle nostre fantasie.
La stranezza del titolo: la malinconia del piccolo Pirandello e l’audacia sperimentale del grande
La stranezza del titolo occhieggia a due piani, uno più evidente, l’altro più recondito, di significato: è la malinconia gonfia di presagi inintelligibili che coglie di tanto in tanto il piccolo Luigi Pirandello, variante sicula e lunatica dell’appucundria napoletana, sentimento di disincanto spaventoso che sconfina nel suo contrario, un’angoscia abitata da mostri senza forma. Per il bambino Luigi la soluzione è accoccolarsi sulle ginocchia della balia Maria Stella, così da ammorbidire il brutale spauracchio del vuoto nella mollezza disinfiammante di un abbraccio materno. La stranezza è, però, anche la spavalderia del drammaturgo che torce i canoni e rompe con la tradizione del teatro: quando, il 9 maggio 1921, Pirandello debutta al teatro Valle con Sei personaggi in cerca d’autore, la sua compagnia è investita dai fischi e dai buuu, mentre le mani congiunte in applauso riescono a fatica a compensare le manifestazioni di disapprovazione e dileggio.
Il film, diretto dal palermitano Roberto Andò, è dedicato a Leonardo Sciascia, che di Roberto Andò fu mentore: è un film insieme molto siciliano e universale. Franco Battiato sosteneva che i siciliani avessero interiorizzato, pervasivamente, la separatezza: da isolani, cercano il mondo, ma il mondo, se e quando finalmente trovato, li respinge di nuovo verso l’isola, perché quell’isola si è trasformata da luogo in sentimento di distacco, non tanto di ripiegamento monadico, quanto di consapevolezza profonda dell’illusione di ogni incontro, di ogni aspirazione di mescolanza. E ne La stranezza di Roberto Andò, troviamo un Pirandello ‘separato’ da sé – ma che cos’è il sé? – e dalla realtà che, nel settembre del 1920, rincasa ad Agrigento per poi recarsi a Catania ad omaggiare Giovanni Verga, alla vigilia dell’ottantesimo compleanno di quest’ultimo, venerato maestro un po’ dimenticato dal ‘continente’.
“Sono tornato per festeggiare il compleanno di un amico”, confida a un vecchio suggeritore di teatro ritrovato a distanza di molti anni, ma scopriamo presto che c’è dell’altro. La sua balia è morta e, insieme a lei, sembra essersene andata anche l’infanzia e i suoi residui adulti di spensieratezza: lo scrittore digerisce male, è incupito a causa della malattia della moglie (una psicosi paranoide), è bloccato nella scrittura. Tutto gli appare posticcio: i personaggi a teatro sono finti; la sua stessa esistenza, ingombra di maschere sociali e di identità multiple, è finta. Come si fa a credere alla vita quando si scopre che è finzione? A maggior ragione chi con la finzione lavora come fa a credere al suo stesso lavoro di illusionista conoscendone le radici e gli ingranaggi, dominandone dall’interno i trucchi di prestigio?
Toni Servillo è un Pirandello incupito, in crisi creativa, incapace di sospendere l’incredulità. Ficarra e Picone diventano becchini, dilettanti ‘professionisti’ di un teatro tragicomico
Toni Servillo assume la maschera del Pirandello maturo e stranito ed è una maschera tanto aderente da sbalordire, quasi a dire che la prima maschera che indossiamo è il nostro stesso volto, pellicola che invecchia ma in fondo resta sempre uguale a sé, un guanto che solo gli altri posso infilarci e sfilarci in quanto noi lo abbiamo addosso e, non vedendolo, non ci rendiamo conto di che cos’è e di quanto sia barattabile. L’operazione di mimetismo riesce alla perfezione e Servillo scarnifica il suo personaggio, ne assottiglia il linguaggio, ne rifiuta ogni verbosità: è Pirandello nella radicalità della sua intelligenza secca, dolentemente attratta dalle costruzioni fantasmatiche, ma, seppur nella confusione, tragicamente conscia della loro irriducibilità a un discorso di realtà. Se anche Servillo può essere Pirandello, può essere qualcun altro in modo tanto perfetto, significa che non c’è io che sia tanto io da non poter essere assunto anche da qualcun altro al di fuori dell’io e che l’attore, che consente all’autore di attuare il gioco di prestigio immaginato, proprio nel diventare il personaggio, lo mette al mondo e, nel metterlo al mondo, lo fa creatura che gli sopravvive, che, nell’aderire, si scolla, si separa, diventa un altro eccedente, un altro (da) sé.
Viviamo solo attraverso le forme che assumiamo, viviamo solo in quanto personaggi, ma, facendoci forme e facendoci personaggi, perdiamo la nostra vita perché la costringiamo, ne ritagliamo i confini, la imbrigliamo soffocandone le altre possibilità: il paradosso pirandelliano rivive ne La stranezza di Andò sia nella storia all’apparenza semplice che rappresenta — Pirandello in crisi creativa torna nell’Agrigento natia e, grazie all’incontro con i due becchini Bastiano e Onofrio, rispettivamente attore e autore di teatro dilettantistico, si sblocca e scrive Sei personaggi in cerca di autore – sia nella riflessione, da intendersi anche come rispecchiamento, meteatrale che la storia si porta con sé: chi sono il sanguigno e istrionico ‘ipermacho’ Bastiano e il sensibile, delicato poeta Onofrio, interpretati da Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che qui depongono la maschera dei conduttori della tv berlusconiana per indossare quella dei commedianti di rango?
Il finale ambiguo: chi sono Bastiano e Onofrio? Esistono o sono ‘fantasmi’?
Esistono o non esistono? Il finale getta una luce ambigua su di loro: Pirandello se li è inventati e sono soltanto due tra i tanti personaggi che gli chiedono udienza perché possano finalmente venire al mondo come creature e, dunque, esistere? È la medesima domanda che è portato a farsi il pubblico quando assiste a una rappresentazione dei Sei personaggi: il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto e la bambina sono persone reali che interrompono con petulanza lo spettacolo, a sua volta contenitore di uno spettacolo in preparazione che, però, a causa delle interruzioni, non può prepararsi, o personaggi previsti dal copione? Cos’è vero e che cos’è falso? Dove inizia la persona e dove il personaggio? Dove il previsto fittizio e dove l’imprevisto proveniente dalla realtà?
Pirandello, con la sua opera narrativa e drammatica, ci ha mostrato che è impossibile per la persona esistere se non attraverso la forma, e quindi attraverso il suo farsi creatura-personaggio che le sopravvive – come sopravvive il nome in una lapide –, anche quando la sua vita biologica termina, ma, nel contempo, come un attore non è il suo personaggio, nessuno di noi è la maschera che indossa. Chi vive veramente, dunque? Chi è l’io che dice di esistere o come si può esistere inguainando un io che non ci corrisponde? Una possibilità di contatto con la vita è forse data soltanto al ‘pazzo’ che rifiuta di indossare la maschera e di prendere forma, confondendosi nella ‘realtà’ prodotta dalle sue fantasie e ciecamente creduta tale. A tutti gli altri è dato solo di scegliere se continuare lo spettacolo, anche se questo è stato interrotto e il suo inganno smascherato – come nel caso della tragicommedia inscenata da Bastiano e Onofrio, interrotta da uno spettatore in protesta –, oppure spegnere le luci della ribalta e accettare asciuttamente, disincantatamente, la divisione e l’inconciliabilità tra desiderio di esistere e la sua strutturale impossibilità di farlo se non attraverso forme di cristallizzazione e di falsificazione.
La stranezza di Roberto Andò è un film straordinario, che merita tutto il successo che ha, perché, sebbene costruito in modo lineare e fruibile, al suo interno nasconde una scatola cinese di rifrangenze con la poetica pirandelliana e con l’essenza nucleare della vita stessa. Una vita che non può darsi se non è inventata. Andare a vederlo è farsi un grande regalo.