Le colline hanno gli occhi: le differenze fra l’originale e il remake
Le colline hanno gli occhi ci dimostra quanto sia facile arrivare alla brutalità perdendo quello strato sottile che la società ci mette addosso. Ma quali sono le differenze fra l'originale di Wes Craven e il remake di Alexander Aja?
La storia è la stessa ma è inevitabile Le colline hanno gli occhi di Alexander Aja, realizzato nel 2006, non racconta e non può raccontare lo stesso mondo del 1977, anno in cui Wes Craven ha portato al cinema uno dei suoi film cult. La vicenda è la stessa: una famiglia va in vacanza e, come accade in tutti gli horror, all’improvviso, la loro serenità si rompe. Dalla norma alla distruzione di essa; c’è qualcosa però negli occhi degli autori a tradire mondi diversi. Nel film del ’77 la tribù era un’orda di balordi, figli di un’America che sceglie di vivere nelle caverne, nel 2006 c’è un passo in più è l’uomo ad aver creato quello scempio, se stesso.
Le colline hanno gli occhi: il racconto di un gruppo di mutanti che è rappresentazione di una madre maligna
Aja porta al cinema la “copia” del film di Craven – le battute, i personaggi – trasferendo ogni cosa in una zona realmente esistente negli Stati Uniti, dove furono effettuati test nucleari intensivi. Ci sono i mutanti che vivono in un villaggio rimasti vittima di questi esperimenti ed essi vivono di cannibalismo proprio per riproporre lo schema da cui sono nati, ripagando l’uomo con la stessa moneta. La contrapposizione è per prima cosa fisica e si fa indizio visibile e tangibile delle differenze – che poi lungo il film si azzereranno – di due mondi, bellezza/bruttezza, pelle levigata/bubbonica. Cannibali-Mutanti/Normali è la categoria che fa il paio con un’altra dicotomia di Le colline hanno gli occhi: come Craven, ci si concentra sulla famiglia – anche in L’ultima casa a sinistra – che diventa scontro tra due nuclei in contrapposizione.
Nel deserto del Nevada ci sono due famiglie (una civilizzata, l’altra “cannibalica”); la prima viene attaccata brutalmente dalla seconda, deforme, che vive tra le montagne, cibandosi di quelli che un tempo erano loro simili. Craven costruisce un horror figlio del proprio tempo, che poi si fa western, una sorta di “attacco alla diligenza” da parte dei “cattivi” – che distruggono tutto ciò che su cui si è da sempre poggiata la società americana, il nucleo familiare, la libertà sessuale post sessantotto, il rapporto uomo/donna che deriva dai cambiamenti di questi anni –, distrutti dalle radiazioni e il film mette in scena la decomposizione della costruzione sociale e mostra sangue e budella.
Al centro c’è un massacro insensato, dopo ogni morte una regola del vivere civile viene meno e i Carter, così si chiama la famiglia “umana”, si avvicinano sempre di più al loro lato ferino. I buoni e i cattivi sono mera etichetta e l’ordine pubblico si capovolge: chi è attaccato attacca e chi ha ucciso viene ucciso, chi era vittima diventa carnefice. Doug e uno dei “mutanti” lottano all’ultimo sangue e non è più uno scontro impari, sembrano fatti della stessa materia, essere spinti dalla stessa vis: l’ascia contro il cacciavite, gli occhi iniettati di sangue contro il ghigno orrorifico; in gioco c’è molto di più, l’uno deve riabbracciare sua figlia, l’altro vendicarsi per ciò che lui e i suoi hanno subito.
Un racconto ancora più violento dell’originale
Le colline hanno gli occhi aggiunge all’originale una guerra per la sopravvivenza, in una natura matrigna che sembra completamente disinteressata all’inferno che sta accadendo tra le sue “braccia”. Quei cannibali mostruosi si nascondono nel deserto, osservano tutto ciò che loro non hanno e odiano quei sette personaggi, così belli, così “giusti”, così “normali”, simboli di una società che li ha gettati fuori dal cerchio vomitandoli perché non sono degni. Loro assaltano i Carter uscendo dalle caverne e dai cunicoli; il distributore di benzina è l’ultimo luogo prima di sprofondare in un niente composto di sassi e polvere. I Carter, per sopravvivere, si sono dovuti abituare a questo “locus” e in esso sono regrediti, ancor di più se possibile rispetto al film di Craven, ad uno stato primordiale – coperti di sudore e sangue, di lacrime e sporco. Gli uomini vengono bruciati vivi (il padre) – la crocifissione si fa esplicito ripudio e parodia dei valori religiosi cristiani -, presi a botte, le donne violentate (Lynn), toccate e umiliate (pensiamo alla scena in cui uno dei cannibali pretende di essere allattato da Brenda, la figlia maggiore); tutto sembra ancora più crudo, sarà il colore vivo, l’oscurità ancora più scura, il giorno in cui la luce è più accecante.
I cannibali desiderano la pelle liscia senza bubboni né escrescenze, l’odore di vita, vogliono ciò che non ha protesi, vogliono la “differenza” perché la loro è attestazione di anormalità. Il loro linguaggio è quello della brutalità, dei gesti, delle parole; e tutto questo si fa danza macabra e lo spettatore pedina seviziatori e seviziati.
Una scena che dà un senso ancora più politico al film
Doug nel film di Aja è un inetto che non agisce, che non si muove, colto nella sua immobilità ancor più che in quello di Craven. Il giovane demanda la moglie, non agisce, è sempre un passo indietro – pensiamo al momento in cui il suocero viene arso vivo; e per questa sua inattività viene criticato dal cognato, come simbolo di un maschio depotenziato. Si ribalta l’idea dell’uomo che protegge la donna, rompendo uno schema desueto e antico. Le donne vengono lasciate sole dal capofamiglia – il patriarcato ha dei problemi -, da Doug, l’unico che tenta di fare qualcosa e che capisce la stranezza e la pericolosità del luogo in cui si trovano. Il loro corpo femminile è sequestrato, depredato ma loro tentano di lottare fino all’ultimo, tentano di sopravvivere e Lynn – l’unica donna adulta che sopravvive – è la massima rappresentazione di ciò.
La città fantasma, abitata dai manichini in cui Doug è alla ricerca di sua figlia, è un momento fondamentale del film di Aja che in Craven non c’è. Quei manichini rappresentano gli uomini e le donne che siamo diventati, vuoti, privi di centro e di un nucleo; lì infatti vi abita uno dei mutanti mostruosi, bloccato in quella casa a causa delle sue malformazioni. Canta l’inno americano, con un filo di voce, ansimando e soffrendo, e prende le forme di una trista irrisione, come potrebbe essere altrimenti.
E poi quella materia devastata dice a Doug:
La tua gente ha mandato via le nostre famiglie, dalla nostra città. Avete distrutto le nostre case. Noi siamo andati nelle miniere, voi avete messo le bombe e avete trasformato tutto in cenere. Voi ci avete trasformato in quello che siamo. Boom. Boom. Boom.
Queste parole danno il senso del dramma vissuto dai cosiddetti diversi che all’interno di una società come quella americana, votata alla perfezione e alla ricchezza, vengono rigettati – nonostante proprio Lei abbia organizzato i test – perché non conformi. Quella famiglia altra, mostruosa e orrorifica, dimostra chiaramente che l’America li ha resi quello che sono, un aborto spaventoso e non si può non odiare i “fratelli” più fortunati e la “madre” tanto malevola; è colpa della gente come i Carter se loro sono così, se ormai sono solo una pallida immagine dell’antico splendore umano. La società non si regge più sui valori di un tempo ma sulla ricchezza (uno dei freak si chiama Pluto); non c’è spazio per gli esseri umani in quei luoghi, ce n’è invece per le copie – devono essere riempiti, c’è bisogno di quei costrutti – di essi che vivono in cucine che non vengono usate, che si accoppiano non potendo, essendo di legno, mettere in atto né il coito né la procreazione. Nulla è come dovrebbe essere e proprio in questa scena c’è il passo che dimostra che Aja è “figlio” del 2006. Il remake di Le colline hanno gli occhi distrugge e smantella la Nazione ma è evidente che sulla storia raccontata pesi anche tutto ciò che è successo dopo; è inevitabile che la politica, la cultura e la società americane siano elementi che penetrano nel tessuto narrativo.
Tra mostri e umani
Doug è sporco di sangue, è stravolto e inferocito – ha passato qualunque cosa – ma è riuscito a vincere e quello schermo rosso con cui si conclude Le colline hanno gli occhi ci dimostra quanto sia facile arrivare alla brutalità perdendo quello strato sottile che la società ci mette addosso. Lo scontro fra queste famiglie fa sopravvivere chi è più pronto e elimina chi non è all’altezza; e in quel finale in cui si uniscono freak e umani c’è tutto il senso del film, di un futuro in cui i confini sono più labili.