Da Le Iene a The Hateful Eight: il sangue e la violenza nel cinema di Quentin Tarantino
Tarantino non è un cineasta violento, non nel senso dottrinale o assoluto. Le scene alle quali si assiste nel momento in cui si prende visione delle sue pellicole sono avulse di ogni rifacimento esistenziale o speculatorio. La sua logica è d’intrattenimento, è una lobotomia d’immagine, è catarsi, è violenza catartica in cui il sangue ha una sua autonomia visiva, un colore da affiancare sulla tela in modo determinante e grottesco. Quando si parla di catarsi della violenza in Tarantino bisogna configurarsi nell’interazione immagine-spettatore e di una nobilitazione della carica violenta, il sangue rappreso e la carne in sfacelo sono svestite dall’orrore sadico, da quel gusto per il disgusto, per innalzarsi e affiancarsi alla comicità. Ciò, va detto, non accade sempre nei suoi film.
Il rosso del sangue assume un cromatismo e una densità differente a seconda del ruolo che veste in ogni scena; in Kill Bill Vol.1 la quantità di sangue che sgorga è immensa, fontane di liquido fluorescente sgorgano nel combattimento con gli 88 faccendieri folli di O’Ren Ishii e nella narrazione della sua stessa infanzia, narrata con l’eleganza dell’anime e attraverso quel crudo eccesso di otto minuti di violenza, sempre per rimarcare ancora una volta che nulla è reale, che la finzione è li in agguato. Tarantino non perde mai d’occhio il desiderio di voler scindere esagerazione e realismo. Nemmeno quando si assiste all’occhio penzolante di Elle Driver, alla sua cecità totale e alla comicità di fondo. Tanto per rendersi conto dei quantitativi, nei due film Kill Bill vol. 1 e 2 sono stati utilizzati oltre 450 litri di sangue finto.
Rassicurare chi guarda è notevole e cosa meglio dell’ironia può far ridestare, o quasi non notare, che si sta assistendo ad una morte dopo l’altra nei modi più pittoreschi che si possa creare? Gli schizzi, le cascate, gli sgozzamenti, le amputazioni sono così eccessive ed esasperate da non tramortire il pubblico, anche perché poi i toni con i quali vengono affrontate all’interno della pellicola ne facilitano la fruizione, come nel caso del capolavoro Pulp Fiction, in cui una chiacchierata in macchina ci trasformerà in una carneficina che ha del superlativo, soprattutto perché la comicità della situazione lascerà cadere in secondo piano la vita devastata del povero Marvin e l’attenzione sarà sempre puntata su Vincent Vega e Jules Winnfield e su come poi riusciranno a pulire la macchina dai resti della vittima: anche li la brutalità della condizione è stravolta da discorsi di una comicità stupenda e irresistibile. La verosimiglianza dell’azione è inversamente proporzionale al flusso di sangue che ne viene fuori. E qui ne viene fuori pareIconico segmento dello smembramento di qualsiasi bestialità è Le Iene, in cui la carica discorsiva ha un potere demolitore, tale da surclassare le urla di dolore di Mr Orange che dopo una rapina finita in una sparatoria, viene portato in salvo in un nascondiglio in cui si crogiolerà in un lago di sangue, e ci rimarrà per tutta la durata del film. Qui la musica è determinante poiché distrae totalmente lo spettatore, soprattutto nella scena in cui Mr Blonde tortura un poliziotto sulle note di Stuck in the middle with you mozzandogli un orecchio, scena non considerata dall’inquadratura, in cui il carnefice prende parte alla cosa con scherno e leggerezza. Il sangue delle scene in questione ha un colore molto vivace quasi fluorescente, così volontariamente innaturale. Visivamente molto simile all’ultimo capolavoro firmato Tarantino: The Hateful Eight.
Quentin Tarantino – smisurato, complice e succube di una violenza innocua, che non destabilizza, che non fa deragliare gli sguardi
La pellicola è pelle viva e attraverso questo diamante della cinematografia contemporanea assistiamo ad un incalzante teatro girato a porte chiuse in cui viene delineata la caricatura del razzismo post schiavitù ma pur sempre presente contro neri e messicani, in cui far convergere la vite di queste otto mosche in un barattolo e da cui far fuoriuscire un’eccezionale Jennifer Jason Leigh. Lei, assassina e prigioniera, subisce e porta i segni delle barbarie con quel ghigno saccente per tutto il film, si appresterà a difendere la sua libertà mozzando le braccia del suo boia per poi diventare una maschera di sangue. La copiosità è tale da essere percepita quasi troppo da vicino e con foga smisurata, le scene sono incalzanti e più lei si appresterà ad allontanarsi dalle sue catene più provocherà un effetto domino che vedrà gli otto odiosi sfortunati ad autoflagellarsi a vicenda, senza che restino realmente dei sopravvissuti certi.
La spettacolarizzazione del rosso diventa più di un marchio, più di un gioco d’immagine, è quasi un supercolore, uno sfondamento dei suoi margini poiché Tarantino lo contrapporrà sempre a qualcosa che sia in netta antitesi con esso. Qualcosa come la musica, l’ironia, l’esasperazione della vendetta e i giochi cromatici. Come il bianco ad esempio: in Django Unchained il sangue va a scoprirsi e a coprire una parte della distesa di piantagioni di cotone che è sostenuto da un simbolismo verso la schiavitù molto feroce. In questo caso l’uso del suddetto è connaturato nella critica reale verso un tipo di violenza con cui l’America continua a fare i conti, ossia la brutalità e la condizione degli schiavi in quello che è stato il secondo Olocausto d’America e di come questa colpa non abbia trovato una vera redenzione. Altra scena chiave è la degenerazione che provoca la morte di Calvin Candie per mano di Schultz in cui avvengono le migliori fuoriuscite di emoglobina a fiotti ed esplosioni micidiali sostenuti dalla musica che eccede come sempre nei suoi film, nel caso specifico attraverso un pezzo di 2Pac: considerato che siamo a metà Ottocento, la cadenza temporale stona ma l’effetto che ne crea è nettamente superiore.
Un film che riesce a distinguersi per sete di sangue e anti-storicità è Bastardi senza Gloria, anche qui non c’è traccia di comicità in determinate scene, non potrebbe mai esserci proprio come in Django, vista la tematica che è andato ad affrontare. Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male. Diciamo che è il caso di dirlo poiché quel gran genio di Quentin immagina un modo per uccidere in un colpo solo Hitler, Göring, Göbbels e tutti i farisei al seguito per mano di questi Bastardi che diciamocelo, tanto buoni non sono, i cui guanti sono contaminati e unti in un modo differente dai loro nemici ma in entrambi i casi si parla di antieroi: da un lato abbiamo i nazisti e fino a prova contraria Tarantino tenta di farci familiarizzare anche con i lati umani che a volte riuscivano quasi a contraddistinguerli, almeno nella pellicola, talaltro abbiamo gli Inglourious, capaci di cadere nel tranello di una vendetta quasi deprecabile e che non ha limiti alcuni. L’unica violenza plausibile è quella che appartiene a Shosanna Dreyfus e al suo iconico ed eroico sacrificio. Questa di cui si parla è una tematica inesistente in realtà poiché Hitler non fu trucidato durante una proiezione, Tarantino sembra quasi peccare di divagazioni solipsistiche in cui richiama all’ordine le vere stragi che la storia ha consegnato all’uomo per poi reinventarle per il puro godimento di una vendetta inconscia.
Tante stragi, tanto sangue, tanto intrattenimento. Tarantino è smisurato, complice e succube di una violenza innocua, che non destabilizza, che non fa deragliare gli sguardi e che punta sempre più in alto.