Lei mi parla ancora: la storia vera dietro al film di Pupi Avati
Il nuovo film di Pupi Avati è il commovente adattamento del romanzo autobiografico di Giuseppe Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio. Disponibile su Sky e NOW TV dall'8 febbraio.
“Non è solo un titolo”. Così Giuseppe Sgarbi su Lei mi parla ancora, romanzo autobiografico con cui nel 2016, due anni prima di morire, ha raccontato la sua Rina, l’amore della sua vita. “Tutte le mattine vado al cimitero a Stienta e parlo con mia moglie”, diceva a chiunque gli chiedesse di lei. D’altronde, si erano promessi l’uno all’altro, “per sempre”. E questo è stato. Ora, i ricordi di Giuseppe Sgarbi sono diventati un film per la regia di Pupi Avati. L’autore del gotico padano ha eletto Giuseppe detto Nino suo alterego, senza però mai tentare di insabbiarne l’origine o di sostituirvisi. Nel volto di un commovente e inedito Renato Pozzetto ha preso forma una vita intera, striata nelle rughe, immersa nelle memorie, viva per amore. Pupi Avati ci si è perso, trascinandoci con lui. Ma quell’intensità è un’eco. L’impronta della storia vera di Giuseppe Sgarbi.
La vita di Giuseppe detto Nino
Giuseppe Sgarbi ha esordito alla scrittura a 93 anni. Primo titolo fu lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista. Nino era anche e soprattutto questo. Il farmacista di Ro con i piedi nel Po. A scandire gli anni è stata però “la Rina”, sposata nel 1950. 65 anni di matrimonio, intessuti di grande passione per la pittura e la scultura. Con la moglie ha retto una casa sui quadri. 4000 opere hanno sostituito le pareti, scomparse tra cornici sempre più vicine. Dell’interesse del figlio Vittorio per l’arte non ci si può stupire, come del rigore di Elisabetta, fondatrice della casa editrice La Nave di Teseo.
“A 95 anni la parola futuro non ha senso. Ora che lei non c’è più tutto è meno interessante”. Il passato ha preso il sopravvento, e in Lei mi parla ancora, il libro come il film, si torna agli anni ’50. Alla ricerca della Rina. Quando si parlava per poesie e si scopriva la vita seguendo le piene del Po. In verità, Giuseppe Sgarbi nasce in Veneto, a Badia Polesine, il 15 gennaio 1921. “Mio padre era il passato, la storia, la tradizione” ha scritto il figlio Vittorio nella prefazione del primo libro.
All’amore per l’arte figurativa sopraggiunse la letteratura. Le poesie, invece, Giuseppe le impara a scuola, dove memorizza Pascoli e Leopardi, come ora non si fa più. È una cultura di fondo, che accompagna i momenti della vita, quando una terzina può fare la differenza. Compagno di letture è il cognato, Bruno Cavallini. A lui, Pupi Avati assegna un ruolo di confine, un Virgilio che guida i ricordi e confonde le memorie coi sogni. Nella realtà, Bruno Cavallini è stato, per Giuseppe, come per il figlio Vittorio che lo preferiva al padre per modi, passione e carattere, l’espressione di una vita intessuta nella prosa e nella poesia d’autore. La Rina invece era tutto. Per un quadro andava ovunque, racconta nel libro Giuseppe Sgarbi per dimostrarne l’inesauribile passione. Come quella volta che corse a Roma in giornata per aggiudicarsi il quadro con l’appestato che riceve la comunione da San Carlo Borromeo. Numerosi i ricordi legati alla Rina fissa al telefono per conquistare un’opera.
L’amore della sua vita l’aveva trovata in facoltà. Lei, racconta, era bravissima. “Che brava che era, ci sapeva fare con tutto”. Lui, invece, aveva scelto Farmacia proprio perché c’erano meno esami. Assieme hanno condiviso il lavoro, l’arte, ma soprattutto la vita. Anche dopo, quando tutto è apparentemente finito. Perché, da credente, ma in primis da uomo innamorato, aspettava il giorno di rivederla. “Sarà un giorno di gran luce, di felicità. Non serviranno più le parole, prevarrà l’entusiasmo perché torneremo di nuovo ad abbracciarci.”