Leonardo DiCaprio: 6 film tra autodistruzione e dissolutezza
Nascere mi succede
Vivere mi occupa
Morire mi completa
Leonardo DiCaprio nella sua carriera si è saputo confrontare sempre con ruoli complessi e nevrotici a loro modo, personaggi visionari, immaginari o realmente esistiti che ha portato sullo schermo sempre in modo credibile, alle volte grottesco e surreale ma ciò non ha mai fermato l’orda di fan e di sostenitori che con dedizione esemplare hanno sempre seguito le sue interpretazioni. Il suo è forse uno dei pochi esempi in cui ogni pellicola, ogni personaggio sano stati ben realizzati, sondati con precisione chirurgica dai più conosciuti e apprezzati a quelli a.T. avanti Titanic. Qui di seguito vi mostriamo quali secondo noi sono stati i ruoli più folli e autodistruttivi che ha incarnato nel suo percorso attoriale.
Buon compleanno Mr Grape è una pellicola del 1993 che vede alla regia Lasse Hallström. In seguito al suicidio del padre, a Gilbert (Johnny Deep) tocca destreggiarsi tra le voci stridule e dissonanti della famiglia composta da Arnie (DiCaprio) fratello problematico affetto da un disturbo psichico, le due sorelle Amy ed Ellen e la madre Bonnie, che dopo la morte del marito si annulla letteralmente, perpetuando le sue giornate in virtù del cibo e del fumo, in modo ossessivo non muovendosi dal divano, cose che la porteranno a sfiorire e far estinguere la sua bellezza, che riesce a mantenere un’immediatezza visiva solo in una fredda foto da frigorifero, nostalgico memento. Deep e DiCaprio sono fratelli fratturati e incespicati in un rapporto che trova i suoi dissidi e i suoi slanci nell’impossibilità di potersi creare una vita nuova, diversa o migliore. Il pregio di DiCaprio è di osare tantissimo, con misura e senza sbavature considerevoli, incarnando le vesti del fratello minore disturbato, scanzonato che non è tra le righe solo perché qualcosa sposta il foglio mentre compone, la sua follia viene da fuori, come una sorta di rimozione, uno sfratto, la sua anima è il crinale tra la poesia di un matto e lo straniamento di un soggetto a teatro, che recita un suo monologo, in silenzio.
Leonardo DiCaprio – l’artista di personaggi visionari e credibili
Poeti dall’inferno è un film diretto da Agnieszka Holland. Paul Verlaine (David Thewlis) e Arthur Rimbaud(Leonardo DiCaprio) sono il genio, il male,la trasgressione, il desiderio di questa pellicola del ’95, in cui viene fotografato particolarmente il periodo di perdizione e di dissolutezza che i due poeti tanto dissimili concepiscono e sublimano in una relazione oscura e logorante. Siamo nel 1870 e Verlaine è continuamente tempestato di lettere e poesie da un giovane paroliere di nome Rimbaud. Egli è preso da quest’uomo ancor prima di potergli stringere la mano: le sue parole hanno in qualche modo rapito e soggiogato Verlaine, poiché sono oppressive, sperimentali, dense di un’estetica nuova, spaesanti e volte alla ricerca di quel fardello di verità di cui sarà sempre succube. L’incontro è determinante, i due poeti lasciano ogni residuo esistenziale e familiare per vivere la loro frenesia nonostante lo scandalo, l’incomprensione e le difficoltà lavorative conseguenti. Leonardo DiCaprio ancora una volta non si lascia sfuggire un’interpretazione commossa, crudele e dannata. Questi due poeti soffrono della loro stessa condizione, sono tragicamente condannati dalla nascita. Nella frenesia dell’amplesso omosessuale, si comprende bene di come il corpo alle volte sia totalmente de-concettualizzato, di come perda la sua origine di genere per essere sorpassato dalla mente, il tutto in una società irrequieta e pregiudiziosa che li perseguita, e che costringe Verlaine a subire un processo mortificante con la moglie a gridare allo scandalo e Rimbaud ad abbandonare ogni speranza di poter vivere una vita senza persecuzioni verso i suoi modi, i suoi scritti e la sua condotta.
The Wolf of Wall Street è un film diretto da Martin Scorsese, che fotografa il vortice di risalite e discese di Jordan Belfort, broker newyorkese di fine anni ’80.
Non c’è niente di erotico in questa pellicola, non c’è nulla che sia legato alla sfera sessuale, c’è solo la spettacolarità: questo film è prostituzione visiva, edificato in modo che retorica ed eccesso non abbiano mai la meglio l’uno sull’altro. Eppure non c’è un vero margine di contestazione, questa efferatezza, gli stupri ripetuti che avvengono a discapito della legge, dell’etica, del consumismo e del dramma in sé non trovano redenzione, come se i protagonisti fossero spogli di colpe e sentimenti e vivessero nei limiti di coiti e banconote. Una rappresentazione criminale che sottende quell’umorismo che Kafka riformulava nelle sua indole pornografica. L’ironia è esasperata ed esasperante, che si fonde con la degenerazione dell’american dream, che vuole tutto e tutti parodie della felicità e della ricchezza, incapsulati come larve nell’equivoco che porta a credere che ciò che raggiungono i protagonisti sia in qualche modo auspicabile. Esso vanifica ogni possibilità di lettura, e per quanto Di Caprio sia grottesco e sfarzosamente comico nel rapportarsi al mondo di Wall Street, il contorno, la struttura e l’intreccio sono liquidi, si perdono, non c’è contrasto con lo spettatore poiché non crea reali spunti critici, non desta riletture nemmeno amorali poiché l’uso del sesso è quasi patologico, messo li per far scena, una trasgressione incapace di stupire o di ridicolizzare. L’unica coerenza appartiene ad un uomo quale Jordan, che si fa da solo, che si ricrea, che rinasce dopo aver perso tutto o quasi. In questo si inserisce DiCaprio, nel timbro atonale del suo personaggio che mantiene il suo margine di bellezza pur vagando in un surrogato di drammatizzazione.
Ritorno dal nulla è un film del 1995 di Scott Kalvert, tratto dal romanzo “Jim entra nel campo di basket”. Esso narra del degrado psicofisico di Jim (DiCaprio),un ragazzo che vive a New York e che subisce le angherie di una città che non è sempre simbolo di rinascita o opportunità. Alle volte fa tragicamente rima con morte,delinquenza e droga. Jim, in seguito alla morte di un amico, comincia a tenere un diario, e la sua vita non sembra subito poter migliorare, date le condizioni sempre peggiori in cui versa a causa dell’eroina che lo obbliga alle volte a prostituirsi per ottenere una dose. Cacciato di casa e con l’anima in spalle persegue la sua autodistruzione fino ad una salvezza disattesa, determinata dall’incarcerazione che lo costringerà a divenire un tutt’uno con la sua letteratura. DiCaprio è ammirevole, nonostante le sue fattezze angeliche e quei tratti non proprio da aborto di periferia convince molto più del previsto proprio forse per il contrasto nettissimo che la sua interpretazione e la sua apparenza provocano a livello di imago.
The Departed – Il bene e il male. L’unione quasi civile che coinvolge Scorsese e il nostro Leo trova il suo apice nel remake del film Infernal Affairs. The Departed (2006) è un capolavoro, dal punto di vista registico, stilistico, attoriale e visivo. In ordine di affetto è doveroso citare un’epico e accattivante Jack Nicholson che veste i panni di Frank Costello, boss della malavita irlandese. DiCaprio è Billy Costigan, un infiltrato nella banda del boss in questione. E Matt Damon è Colin Sullivan che fa anch’egli il doppio gioco ma nel senso opposto. La bellezza di questa pellicola è tutta insita nello spaesamento, nella tensione di Billy che non è mai un eroe assoluto, che vive la sua doppia vita con paranoia e orrore. L’eterna diatriba bene e male non ha radici solide o versanti stabili, ognuno si perde nell’altro come cambia la prospettiva, come la storia intercede. Esse sono due grandezze indefinite che circolano, si dissolvono incuneandosi negli errori, nelle fragilità che
trovano un’unica grande certezza, la morte. DiCaprio è eccezionale, la sua presenza risente di quella claustrofobia esistenziale che è connaturata nel suo personaggio, che non crede in una via d’uscita da quel mondo. Questo film, come tutti i suoi film, sono masticati, vissuti con vigore e le sue movenze sono sputate in volto, lo spettatore non può scansarsi, il colpo è inferto ed è una gioia a brandelli, quasi dolorante quella che si percepisce.
Shutter Island. Notissimo thriller firmato Scorsese che indaga sulla follia e sulla violenza che la mente con autolesionismo ricrea e sottrae. Una pellicola che ha come perno centrale Teddy Daniels, poliziotto dell’FBI in visita in un manicomio-isola per trovare una paziente scomparsa nel nulla. Tutto il paradosso, i traumi e la confusione ritratta può essere ricondotta ad un senso diabolico che imperversa nelle scene: c’è una separazione evidente tra il soggetto conoscitore e ciò che gli è noto, una divisione tra uomo e il ricordo, e anche un immancabile senso simbolico, perché quella conoscenza quel sapere riesce ad essere rimodellato e ridestato nel protagonista. Egli è un poliziotto vedevo ma è anche un’omicida perseguitato e inquieto. Cosa fondamentale di tutto è realizzare che quella conoscenza non è altro che una forma di mediazione, e mediare lo si fa solo attraverso la lingua, tant’è che Teddy Daniels crea anagrammi geniali e teorie stravaganti volte ad oscurare le verità inaccettabili del suo passato: più cerca di andare a fondo all’indagine più si scopre impuro, caduco, orfano di un soggetto, la sua anima è contraffatta, falsificata dalle sue vigliaccherie, dallo strabismo perenne che lo affligge quando c’è da misurarsi con se stesso. Affetto da un reset mnemonico, è spettatore dalla folla, non riesce ad imporre una resurrezione, il suo percorso nel manicomio è una lettura vaneggiante e disordinata, un modo inquieto e vano di affogare nei rimorsi. La sua incoscienza è l’unica via che può intraprendere serenamente. Eppure questo film lascia apparentemente con l’amaro in bocca, lo spettatore non è consapevole in toto di ciò che accade. Anche se la decisione finale, un po’ imposta un po’ autodeterminata la dice lunga. Ecco che il personaggio di DiCaprio si risolve in un’apatica fine,in una sconfitta. La mente “suicida” è per convenzione sociale erosa dal male e per coloro che vivono questo conflitto vivere è cercare l’equilibrio su un piano inclinato. Lui non rifiuta la vita ma la conferma, l’evasione è unica e devastante, un recupero dell’individualità dinanzi alla morte e alla scelta di perseguirla. Il Freitod, la libera morte, è la voce che spezza ogni quiete, il paradosso più alto della vita sta proprio nella sua sottrazione, coloro che scelgono e non abdicano questa via sono inesistenti, refusi. Non è sempre possibile o conveniente sopravvivere a se stessi. Non a caso il senso estremo di ogni pellicola è l’autodistruzione, essa esiste perché per necessità un film ha quel conto alla rovescia nello scheletro: una semiretta filmica non si può inserire in un mondo di esseri finiti. Come noi, anche la più bella e singolare immagine si conclude con i titoli di coda.