Lost in Translation – l’amore tradotto: il significato del film di Sofia Coppola
Il significato più profondo di Lost in Translation risiede proprio nel suo finale anti-romantico, che vede Bob e Charlotte scegliere la via della rinuncia, non per paura o vigliaccheria ma per pura consapevolezza che l'alternativa sarebbe sbagliata.
Lost in Translation (al quale in Italia è stato aggiunto il fuorviante sottotitolo L’amore tradotto) vede Sofia Coppola alla regia di un film introspettivo e profondo, meravigliosamente privo di quelle risposte che tutti ci affanniamo a ricercare ma che poi, molte volte, non spiegano ciò che abbiamo davvero bisogno di capire.
L’incertezza, infatti, caratterizza la human condition, in particolare in certi momenti di passaggio della vita. Per Bob (uno straordinario Bill Murray) il dubbio è profondamente esistenziale: un tempo attore di successo, con l’età che avanza il suo volto viene relegato a futili spot televisivi, che se da un lato gli consentono di mantenersi vivo, a livello di notorietà, interiormente sortiscono l’effetto contrario, accompagnandolo verso un punto di non ritorno che non è pronto ad accettare. Durante un viaggio di lavoro a Tokyo per una campagna pubblicitaria, l’uomo incontra la giovane e bellissima Charlotte (Scarlett Johansson), una donna che vive un’ansia opposta ma altrettanto pressante, che (non) risponde alla domanda: “sto davvero perseguendo la mia felicità e realizzazione?” Neo-laureata in filosofia, Charlotte si trova a Tokyo per accompagnare il marito fotografo. Può permettersi di seguirlo mentre lavora, in attesa di decifrare quello che vuole fare nella vita, ma la solitudine quotidiana, imposta dagli impegni pressanti del compagno, la rende irrequieta e insoddisfatta.
L’incontro fra queste due “anime in pena” nel bar dell’hotel darà vita a un reciproco rispecchiarsi fatto da un lato di sana e consapevole malinconia (nel caso di Bob), dall’altro di idealizzazione e desiderio di fuga, mettendo entrambi al cospetto delle proprie emozioni e contraddizioni più profonde.
Lost in Translation: perdersi nella traduzione di una lingua e di un sentimento
La scelta del titolo Lost in Translation sottolinea splendidamente il profondo senso di smarrimento – da una parte desiderato dall’altra confondente – provato dai protagonisti: persi per le strade di una Tokyo ospitale ma asettica, in cui tutti parlano una lingua sconosciuta e faticano a comprendere la loro, quella sensazione di non sentirsi “a casa” finisce per coinvolgerli anche su un piano emotivo, portandoli a mettere in discussione le reciproche vite e a pensare, forse anche solo per un istante, di poter essere una rassicurante alternativa l’uno per l’altra. Ma la vita vera è altrove, nelle rispettive città di residenza, ed è fin troppo facile pensare che da quella parentesi possa scaturire qualcosa di più di un momento di oblio. Una verità che Bob, dall’alto della sua saggezza, sembra comprendere con maggior facilità, nonostante il tormento, ma che Charlotte, invece, fa più fatica a metabolizzare, vivendo ancora un’età in cui l’istinto spesso prevale sulla ragione.
Ascoltando le conversazioni, ora frivole, a tratti profonde e molto spesso criptiche e ricche di sottintesi, navighiamo attraverso il mare di emozioni che attraversano i protagonisti di Lost in Translation, in un viaggio la cui meta – per qualcuno forse deludente – non è un bacio appassionato o una notte d’amore che apre a un futuro insieme – ma un importante gradino nella conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie insoddisfazioni, mai completamente estinguibili.
Un incontro di anime
Il significato più profondo di Lost in Translation risiede inaspettatamente proprio nel suo spirito anti-romantico, che vede Bob e Charlotte scegliere la via della rinuncia, non per paura o vigliaccheria ma per pura consapevolezza che l’alternativa sarebbe sbagliata. Una decisione sofferta ma lapalissiana, nonostante le maggiori resistenze della ragazza, che nonostante tutto finisce per lasciarsi guidare con dolorosa ma al tempo stesso serena fiducia verso un addio che ha il sapore della crescita, del lasciarsi alle spalle le illusioni per procedere con coraggio verso la piena assunzione di responsabilità sulla propria vita. Perché – come lo stesso personaggio di Bill Murray dice esplicitamente nel film – “Più conosci te stesso e sai quello che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi“.
Cosa sussurra Bob all’orecchio di Charlotte nel finale di Lost in Translation?
Il finale di Lost in Translation, nella sua ermetica semplicità, è da annali del Cinema. Bob, dopo aver partecipato a un talk show, decide che è giunto il momento di ripartire, e ciò crea tensione fra i due, che si salutano freddamente. Ma l’uomo ha bisogno di un congedo diverso e torna sulle orme della ragazza, per un ultimo addio. La trova in mezzo la folla, la abbraccia, lei si scioglie in lacrime mentre lui le sussurra all’orecchio una frase all’apparenza banale (decifrata dopo un duro lavoro di manipolazione dell’audio da parte dei fan) ma in realtà in grado di racchiudere l’intera essenza del film:
Devo andarmene, ma non lascerò che ciò si frapponga tra noi. Ok?
Poi le dà un tenero bacio sulle labbra e va via sollevato, lasciandola con un ampio sorriso liberatorio, che sembra volerle suggerire di cercare di essere felice per ciò che è stato e che niente potrà mai cancellare.
Lost in Translation è un film bellissimo e profondamente umano, in grado di cullarci nel sostenere il nostro quotidiano bagaglio di incognite e insicurezze. Suggerendo che le risposte non sono tutto e che ciò che sentiamo spesso e prezioso in quanto tale, senza la necessità di essere razionalizzato e catalogato. E soprattutto che la fine e la distanza fisica possono trascendere le categorie del tempo e dello spazio, se un momento è stato degno di essere vissuto.
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