Maccio Capatonda: storia e filosofia di un italiano medio
Il Migliore dei Mondi è solo l'ultimo tassello di un percorso autoriale insospettabilmente personale.
Maccio Capatonda nasce, come tanti altri artisti, in quel periodo fecondo che erano gli anni ’90 all’interno di Mai Dire Gol, format della Gialappa’s Band, fucina di idee e comici che fin da subito si mostravano come interpreti grotteschi e surreali del proprio tempo.
Realtà grottesca e reality surreali: gli inizi della carriera di Maccio Capatonda
Castigat ridendo mores è quello che facevano, ognuno con le proprie sensibilità e propensioni: che nel caso di Maccio era una particolare facilità nella creazione di calembour lessicali e -volute- pochezze grammaticali, mostrandosi subito come il cantore del brutto, erede post atomico del cinema crepuscolare e decadente di Ciprì & Maresco (era di quegli anni la lucentezza sporca di Cinico Tv).
È fin dalle sue prime cose -i finti reality come Il Divano Scomodo o Il Gabinetto e il Grandangolo– che emerge prepotente una passione per il trash, con la conseguente nobilitazione di alcune forme espressive sottovalutate provenienti dal basso: propensione istintuale, visto che per sua stessa ammissione si è “nutrito di tanta televisione negli anni ’80 e ’90 e le cose più comiche come le tv regionali per finire alle televendite, ai maghi e ai cartomanti, perché il trash nasce dal tentativo malriuscito di fare una cosa.”
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Un grottesco che scivola immediatamente nello sberleffo, nel gioco citazionista, che lo porta a crescere con prodotti sempre più strutturati per approdare nel 2013 a Mario – Una Serie di Maccio, (una prima stagione con 18 episodi, una seconda con 16): che continua a puntare la sua lente sulla realtà attraverso la ridicolizzazione dei telegiornali, piena di situazioni non-sense e trovate geniali. La trama di Mario è complicata e ingarbugliata come un giallo, ma porta avanti le storie con una leggerezza che viene da un’intelligenza acutissima e dialoghi brillanti. Qualità confermate ed esaltate nella stagione successiva che prende ancora più coscienza delle possibilità del proprio autore; che infatti nel 2014 decide di fare il grande passo e passa al cinema con Italiano Medio.
Italiano Medio per un cinema diverso
Italiano Medio è, in partenza, un trailer espanso a 90 minuti (era infatti il titolo di uno dei tanti finti trailer del primo periodo di Maccio, imitazione trash di Limitless con Bradley Cooper): ma quello che lo rende ben altro è la sua partitura corale unita ad un’architettura formale inedita per operazioni del genere. La trovata geniale fa parte del Maccio-pensiero fin dall’inizio, ovvero l’ammissione a propri della propria inferiorità anzi dell’appartenenza ad un genere basso come appunto la commedia trash. Ovviamente, Italiano Medio non è affatto una commedia trash ma ne prende in prestito gli stilemi per sbeffeggiare un certo tipo di intrattenimento, giocando ancora una volta su tutto quello di peggio che ci circonda: ecco allora sempre gli svarioni linguistici, i dialoghi da analfabeti, i tipi minus habens, che si muovono in un lungometraggio complesso e articolato che svuota i codici filmici declinando l’idiotismo in maniera mai fine a sé stessa, anzi lucidissima mentre metabolizza e mette in scena vandalizzando i modelli cinematografici alti e bassi.
E sottilmente fondamentale dal punto di vista sociale e culturale perché trova il minimo comune denominatore tra il tipo impegnato e l’uomo debosciato e qualunquista, ovvero il medium televisivo (proprio l’oggetto dello studio di Capatonda dai tempi di Mai Dire Gol), che diventa un monstrum vivente, un blob vischioso e magmatico che travolge tutto e tutti mescolando la commedia piccolo borghese, la tv trash, la volgarità dei cinepanettoni e il macchiettismo cinefilo.
Su tutto questo, Maccio si tuffa con la violenza iperbolica di un tornado devastante, rendendo la sua opera prima uno sguaiato e slabbrato elogio alla dissacrazione, una mosca bianca che parla della banalità con una scrittura mai banale, un profluvio di intuizioni – tutto questo osservato con sguardo immanente e nichilista, sbeffeggiato da una risata idiota e svuotata da ogni senso.
L’Italia diventa allora il Vuoto Cosmico, attualissima mentre divide le sue genti in due tronconi: da un lato la superfice plastica che riveste lo squallido vuoto pseudo-televisivo, dall’altra il vacuo affannarsi privo di concretezza e senso della realtà di un mondo impegnato che non ha direzione. Tutto questo con una potenza espressiva esaltante e intelligente, mai ovvia, brutta sporca e cattiva.
Il successo del film proietta il suo regista verso l’opera seconda: ma non prima di fare un’altra sortita nello slapstick rivisitato, ovvero Mariottide.
Mariottide: povertà e omicidi all’italiana
Nel 2016, all’interno di Alice Nella Città viene presentata Mariottide, 20 episodi che raccontano di Mariottide, un pessimo cantautore fallito che vive in condizioni di estrema povertà insieme a Fernandello (Herbert Ballerina), suo figlio adottivo trentacinquenne con evidente problemi psicologici. Mariottide è un cortocircuito di generi che sfrutta elementi del dramma per finalità comiche, sforando nel grottesco più puro ma sempre con quella leggerezza disarmante e geniale. Giochi di parole, contrasti emotivi, parossismi narrativi esasperano il tono della comicità per arrivare alla risata in maniera tortuosa ma esaltante.
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Una vena autoriale complessa, insomma, un mondo frastagliato e fortemente consapevole nonostante l’apparente leggerezza e il vestito della comicità: anzi, è proprio questa estrema leggerezza la cartina tornasole di un’intelligenza nella scrittura e nella messa in scena assolutamente mai banale.
Come detto, i generi cinematografici sono sempre stati al centro dell’indagine filmica di Maccio. Ed ecco che nel 2017 arriva allora Omicidio all’Italiana, opera numero due distribuita da Medusa Film.
Capatonda rimette in scena su grande schermo il suo universo letterario linguisticamente sfrenato per declinarlo, ancora una volta, secondo il canovaccio del genere: e ormai si è capito che, all’interno del canone, il comico si muove quindi con disinvoltura.
Omicidio all’italiana diventa allora Idiocracy All’Italiana: Capatonda nasce e cresce in un mondo figlio del ventennio di incontrastato dominio televisivo, dove quindi ogni cosa -dai personaggi alle storie fino alla scrittura e alla recitazione- è figlia di quel (povero) immaginario, sbranato fino all’osso dalle reti commerciali e imbrigliato in una stratificazione di volgarità, ignoranza e pochezza artistica. Su queste coordinate quindi si imbastisce una trama gialla che sfocia nel surreale ma perfettamente fruibile in sé: senza sbavature, inserisce i suoi topoi e si sbizzarrisce nei suoi giochi lessicali, in un bestiario unico e irriverente che mette alla berlina di tutto.
Pian piano lo sberleffo diventa irrisione del potere: quel (lo stra)potere televisivo che da sempre Maccio ha inseguito, imitato e alla fine additato come causa ed effetto di una regressione culturale spaventosa e abissale, dovuta a una massificazione di gesti e abitudini ossessivamente ripetuti in una coazione a ripetere senza senso né nesso- una regressione che si risolve prima di tutto in una irrisolutezza linguistica madornale e a prima vista divertente, ma che poi conduce ideologicamente alla povertà di spunti e di interessi per concludersi e morire in una desertificazione dell’immaginario.
Sono macerie culturali e non geografiche, quelle di Acitrullo raccontate da Maccio: e se non sono le macerie inquietanti degli amati e ammirati Ciprì & Maresco è solo perché la volgarità sbraca nella risata (voluta e ricercata, siamo pur sempre in un film -apparentemente- comico) e perché Capatonda trova la perversione del macabro e la unisce ad una componente dissacrante e ironica da sempre innestata in ogni sua invenzione.
Come Donatella Spruzzone, interpretata in maniera fine e intelligente da Sabrina Ferilli, capofila dei personaggi capatondiani alla quale sono affidate le frasi più rappresentative del film: “una volta che passa dentro quella scatola, tutto diventa puro intrattenimento, e la verità non conta più niente” dice la giornalista al poliziotto che insegue più una poltrona in tv che il colpevole.
Proprio qui si crea il vortice di senso di Omicidio all’italiana: dove descrive in maniera limpida e impietosa le aberrazioni di un paese preda della macelleria dello show, perché dove si crede più alla televisione che alla realtà, più al simulacro riprodotto di una verità ormai contraffatta, è proprio lì che vive la contraddizione dei nostri giorni, e il corto circuito che rivitalizza il cinema di Capatonda. “Scappiamo! I giornalisti stanno venendo ad arrestarci!”
La linea continua in maniera coerente e magari prevedibile, ma sempre con quella consapevolezza che si tramuta quasi in prevedibilità se non fosse per l’altissimo livello della produzione: Maccio continua a battere sui generi, e nel 2019 torna la serialità (stavolta su Sky) con The Generi.
Tutte le coniugazioni del cinema
Con The Generi Maccio compie un ulteriore passo in avanti dal punto di vista autoriale, perché prende il suo universo (con tutte le sue diramazioni e discendenze) e ne fa un affresco della vita di oggi, quella più monotona e quotidiana possibile, così da mettere in scena un universo cinematografico pienamente cosciente delle sue caratteristiche.
Esasperando le nostre consapevolezze, esaltando i nostri difetti, e colorando tutto attraverso i generi cinematografici, che sono poi diverse declinazioni del nostro essere umani.
A partire dall’horror, il più sociale e/o divertente; fino al noir esistenziale, passando per il fantasy, la commedia sexy, i reality: insomma, tutte le coniugazioni del cinema sposate al suo estro unico e alla sua follia creativa. Così facendo ridendo e scherzando Marcello Macchia, attraversa la storia del cinema decostruendola e decodificandola, mette alla berlina ogni stereotipo del cinema e della vita, facendo ora esplodere, ora implodere la narrazione in una risata a tratti fragorosa, a tratti sommessa, ma che ha sempre un retrogusto difficile da decifrare.
C’è Teatro Dell’Assurdo, in The Generi, e tutto il bric-a-brac scombinato e fintamente disordinato che si porta dietro: il deliberato abbandono di ogni costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio consequenziale, il rigetto della struttura convenzionale e tradizionale e il legame, fra una storia e l’altra, fatto da una labile traccia esterna, dialoghi ripetitivi e serrati, senso del tragico che stimola il sorriso.
E poi c’è lui, Maccio Capatonda, un corpo per tutte le stagioni e un volto per ogni genere: che ovviamente sale più in alto in alcuni momenti -il cinecomic e l’horror sono pura comicità esistenziale- e si appiattisce inevitabilmente in pochi altri, ma che riesce a rendere il suo personaggio così codificato meno invasivo possibile a favore di una narrazione che cerca di farsi compiuta ma poi volutamente deraglia sul nonsense. Riuscendo alla fine, quando non si ride, a farci interrogare sul perché: e a farci rendere conto che sul fondo, tra uno sketch e l’altro, ci sono verità su noi stessi che a volte dimentichiamo.
Il migliore dei Maccio
Nonostante qualcuno possa non considerarlo, o addirittura negarlo, Maccio Capatonda oggi dopo 34 anni non può non essere inserito nel novero degli autori di cinema più personali del nostro panorama attuale.
Lo conferma Il Migliore Dei Mondi, il suo terzo film (tecnicamente una co-regia, insieme a Danilo Carlani e Alessio Dogana) disponibile su Prime Video dal 17 novembre 2023.
Un film imprevisto e forse per questo ancora più importante nel suo percorso, perché sveste le maschere del passato -senza rinnegarle e anzi citandole qua e là ma sempre con coerenza narrativa-, e riveste la sua solita satira verso le derive culturali e sociali della realtà più stringente e attuale con una storia che riflette, con ironia tagliente, sui rapporti di dipendenza dell’uomo con la tecnologia. Con Il Migliore dei Mondi allora Marcello intercetta le contraddizioni e le inquietudini usando una sua idea per una serie (Black Maccio doveva essere, parodia di Black Mirror), approfittando dell’ormai tanto abusato oggi concetto di Multiverso e inventando una vera e propria distopia, ovviamente sui generis.
Se da un lato questo terzo è il film meno spericolato dei precedenti nei toni, nelle esagerazioni, nelle iperboli; dall’altro innegabilmente quello di Maccio è un vero e proprio percorso autoriale in pieno fermento e maturazione, nel quale Il Migliore dei Mondi si pone come punto di riflessione e svolta, e come opera più a fuoco dal punto di vista narrativo.
Una storia articolata emotivamente che storpia la nostalgia per ridicolizzare i film sulla nostalgia: ma è estremamente intelligente e soprattutto estremamente pop nel senso più estetizzante e teoretico del termine, addirittura osando alcune sequenze dal respiro internazionale come troppo poco cinema italiano fa (uno su tutti, il salto nel vuoto della macchina con i finestrini che esplodono nel ralenty del bacio dei conducenti). E ponendosi alla fine come summa matura del Maccio-pensiero nel momento in cui studia e riflette sulla nostra condizione sociale destrutturata e depersonalizzata dall’uso (e abuso) massivo della tecnologia o di mezzi esterni a quelli dell’evoluzione emotiva.
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