Madres paralelas: spiegazione del film e del finale
Spieghiamo il film di Almodóvar, una riflessione sulla necessità di sapere di chi si è figli, storicamente e biologicamente. Allerta SPOLIER!
Nell’ultimo film di Almodóvar, Madres paralelas, nulla è lasciato al caso: diramando una fitta rete di simboli, il maestro del cinema spagnolo salda privato e politico per riflettere intorno alla necessità di sapere di chi si è figli, storicamente e biologicamente.
Le madri parallele cui fa riferimento il titolo sono Janis (Penélope Cruz) e Ana (Milena Smit): la prima, alle soglie dei quarant’anni, si chiama come un’icona del Sessantotto morta d’overdose troppo giovane (nomen della figlia, omen della madre, che, infatti, muore di droga a ventisette anni); la seconda, ancora minorenne, porta il nome più comune del mondo, e infatti la madre – un’attrice ‘tardiva’ – si è sempre disinteressata a lei e l’ha avuta solo per poter uscire dalla propria casa e, così, diventare grande.
Madri parallele, ma diverse
Janis è rimasta incinta per caso, ma ha salutato la gravidanza come una benedizione; Ana – si scoprirà – è stata stuprata da un ‘branco’, ma senza raggiungerne piena coscienza. Janis vive dirigendo la sua vita; la seconda essendone diretta. Entrambe partoriscono nello stesso giorno, quasi contemporaneamente: la prima genera Cecilia, che si chiama come la bisnonna, ma ha qualche problema a respirare fuori dall’utero (e ciò, scopriremo, le sarà fatale); la seconda dà alla luce Anita, “una piccola Ana”, suo doppio destinatario di alcun desiderio materno particolare.
Per tutte e due, anzi tutte e quattro, non ci sono padri: Janis non sa di chi è figlia, Ana è stata strumentalizzata e rigettata da un padre presente fisicamente ma assente emotivamente; Cecilia è frutto di una relazione fugace e clandestina, Anita, come già anticipato, di una violenza anonima. Eppure è proprio un padre, sebbene ‘accantonato’ nel suo esercizio paterno, a non avere deposto la sua funzione e a innescare, in virtù di questa, il moto tragico-eroico del dubbio che prelude alla scoperta, alla rifondazione della verità salvifica.
Arturo, unico padre in un universo di madri in Madres paralelas
Si tratta di Arturo (Israel Elejalde), l’antropologo forense con cui Janis ha concepito Cecilia: quando, alcuni mesi dopo la sua nascita, torna a Madrid per conoscere la figlia, non la riconosce come tale. La sua sicurezza perentoria nell’affermare che non si tratta di una figlia sua è una forma di riaffermazione dell’autorità simbolica del padre che argina lo strapotere del materno: “questa sarà pure figlia delle tue cure, ma non è di certo figlia del mio seme” sembra voler dire, quando dice che la bambina è bellissima e perfetta, ma nondimeno non è sua, non lo è, senza ombra di dubbio.
Sull’importanza del sapere la verità, anche se porta con sé dolore, è costruito tutto il film, che rilegge le tragedie di Sofocle – l’Edipo re s’agita, latente, dietro la superficie rossa e madrilena, un filo eccessiva non tanto nell’estetica sempre seducente quanto nella pletora di trame e sottotrame, dell’opera almodovariana – per tradurre simbolicamente la necessità di non vivere all’oscuro, perché scoprire chi e dove sono i nostri padri, biologici o storici che siano, è, in fondo, l’unico mezzo per salvarci dalla vita fuori dall’utero, per tutti imprevedibile, dolorosa e inevitabilmente ‘assassina’.
“Solo ora che è morta, l’ho ritrovata”, osserva Janis quando si rende conto che la sua Cecilia, la bimba da lei partorita, era in realtà Anita, cresciuta per il breve tempo dei suoi pochi mesi sulla terra dalla madre parallela Ana. E solo quando le fosse del pueblo natio riportano alla luce, a seguito di uno scavo, gli uomini desaparecidos decenni prima e ora restituiti scheletri nella verità della ferocia assassina del regime franchista, quest’ultimo una Grande Madre fagocitante, è possibile ristabilire l’equivalenza della madre e del padre, anch’esso, seppur spesso sotterrato dal fantasma d’onnipotenza materna, essenziale alla vita, a una sua feconda inconcludenza. Tra il parto mortifero di Janis e la riemersone dei resti umani nel piccolo borgo in cui è cresciuta c’è, dunque, una correlazione, un rapporto di identità metaforica.
Madres paralelas: la spiegazione del finale
La Storia in maiuscola della Spagna, nel suo capitolo più oscuro e lancinante, quello della guerra civile, a ben guardare, entra nel film solo per servire la storia in minuscola della trama mélo, e non viceversa. Quando Ana, che vorrebbe per la prima volta sostare nella posizione di accudita, è più interessata alla relazione con Janis, di cui si è innamorata, che al passato del suo Paese – del resto, lo sappiamo, è figlia di un’apolitica –, è costretta a misurarsi con il distacco senza ritorno impostole dall’altra, che, invece, ha compreso non tanto come il politico sia privato, ma quanto il privato sia politico, afferrando in profondità il punto esatto in cui le narrazioni celate dal non-detto collettivo plasmano la narrazioni celate del e al nostro intimo sentire.
Madres paralelas conferma la sapienza non solo drammaturgica ma anche psicoanalitica di Almodóvar, un grande maestro che, in linea con la sua filmografia, sembra riportare ancora una volta sulla scena un universo tutto al femminile di madri senza uomini, eppure, nel contempo, ora pare volerci dire allegoricamente – si pensi anche all’ultimissima scena in cui gli scheletri dei padri assassinati tornano in vita – che proprio quegli uomini, se permettiamo loro di essere padri (e se loro si dimostrano all’altezza del ruolo), possono salvarci, possono sottrarre almeno un po’ la nostra esistenza alla tirannia di un materno che decide, senza interpellare, se essere beatitudine o tormento, aria rinfrancante o prigione che sbarra e soffoca.