Da Tarantino a Fincher: il 2019 è l’anno di Charles Manson?
Tra C'era una volta...a Hollywood e Charlie Says, passando per Mindhunter il 2019 porta al cinema il criminale più famoso del mondo: Charles Manson.
Un manipolatore, ossessionato dal potere e dalla propria immagine. Charles Manson – definito l’uomo più pericoloso del mondo pur senza aver mai ucciso nessuno – vive il suo momento di gloria tra cinema e tv. Tre grandi prodotti dedicati a lui (totalmente o parzialmente), un documentario con immagini inedite, un progetto non ancora distribuito in Italia: sembrerebbe che il 2019 sia proprio l’anno di Manson.
La recensione di C’era una volta…a Hollywood
A farla da padrone, in questa onda mediatica che sta portando nuova luce sul personaggio, è Quentin Tarantino con C’era una volta…a Hollywood. Il regista di Pulp Fiction costruisce la sua favola pop attorno alla strage di Cielo Drive che il 9 agosto del 1969 ha visto l’orribile assassinio di Sharon Tate, Wojciech Frykowski, Abigail Folger, Jay Sebring e Steven Parent.
Manson, Tarantino e il fascino del male
L’attesa attorno a questo film (già noto al pubblico americano, ma che sarà distribuito in Italia a partire dal 18 settembre) è alimentata non solo dal grande ritorno sullo schermo di uno dei registi più amati di Hollywood, ma anche dal personaggio magnetico a cui Tarantino ha scelto di dedicare il suo nono lavoro. Di rado si ha l’occasione nel cinema (e nell’arte in generale) di osservare l’incontro tra due figure cult così diverse eppure così importanti, capaci entrambe di andare a sollecitare le fantasie più inconfessabili degli spettatori.
La recensione della seconda stagione di Mindhunter
Un discorso analogo si potrebbe fare anche per la comparsa del personaggio di Manson nella seconda stagione di Mindhunter, produzione originale Netflix patrocinata da un’altra firma inossidabile del cinema thriller, David Fincher. Come accade in C’era una volta…a Hollywood, Charles Manson riempie lo spazio nonostante un minutaggio relativo, se confrontato alle altre linee narrative.
“La più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste”, diceva Charles Baudelaire. La presenza di Manson è riuscita a entrare talmente in profondità in quelle persone e in quel luogo che, magistralmente, Quentin Tarantino ha scelto di rappresentarlo in una rapidissima incursione nel film, ma niente più. Non occorre: basta il nome di Manson, o osservare per pochi secondi il suo sguardo allucinato per gettare un’ombra sinistra su tutta la storia. D’altra parte il protagonista di un racconto è colui di cui si parla di più, non quello che appare più spesso.
La figura di Manson in Charlie Says, al cinema
Al contrario, la figura di Manson è costante e reiterata nel più classico Charlie Says di Mary Harron, nelle sale italiane a partire dal 22 agosto. La prospettiva con cui la regista di American Psycho decide di raccontare il famoso criminale e i rapporti con la Family è piuttosto intima e si concede di entrare nella quotidianità e nello squallore delle loro vite. Attratti con la promessa di libertà, amore, pace, i ragazzi e – soprattutto – le ragazze della Family, passano gradualmente da una condizione di figli a quella di schiavi, automi, burattini. L’incoscienza e, quindi, la debole responsabilità delle autrici della strage – Lulu (Hannah Murray), Katie (Sosie Bacon), Sadie (Marianne Rendón) schiacciano su Manson tutto il giudizio del pubblico, eliminando l’interessante ombra di ambiguità ben rimarcata nel racconto di Fincher.
La recensione di Charlie Says
Manson la mente, la Family il braccio
Tre differenti prospettive per raccontare un mistero, tutt’ora insoluto, che è entrato come un tarlo nella memoria dell’America. La brutalità degli omicidi può essere compresa dall’opinione pubblica se si relega in una sorta di ghetto psicologico, quello in cui solo gli psicopatici, i pervertiti, la gente cresciuta ai margini (o all’estero, ancor meglio) – insomma, i diversi – possono concepire di togliere la vita a un altro essere umano. Ma quando gli assassini sono degli adolescenti bianchi, sportivi, ben educati, di buona famiglia, allora la terra sotto i piedi dei benpensanti inizia a tremare.
Allora, cosa? La follia, la droga, la musica rock, i deliri di onnipotenza di un ex-galeotto – Manson, appunto – corruttore di giovani. Lo stato allucinatorio con cui gli adepti della Family (questo il nome della setta di Manson) è piuttosto evidente anche nel documentario del 2018 (lo stesso anno della presentazione di Charlie Says alla Mostra del Cinema di Venezia) Charles Manson – The lost tapes. Questo film, andato in onda in Italia su Sky, raccoglie una serie di video inediti girati da una troupe nel 1973 nello Spahn Ranch (dove viveva la Family), quando Manson e gli autori delle stragi erano già in carcere. Le immagini mostrano una comunità hippie dagli inquietanti propositi rivoluzionari e, come ben racconta la Harron nel suo film, con il nome di Manson sempre sulle labbra. Charlie Says, Charlie dice che…Il mantra delle ragazze si ripete cantilenante e ipnotico, segno di una suggestione impressa a fuoco in menti giovani e malleabili.
Manson, un ferita ancora aperta nel cuore dell’America
Come mai, a cinquant’anni dalle stragi assistiamo a questo proliferare di film, documentari, serie dedicati alla Manson Family? probabilmente si tratta di un caso, oppure di un implicito patto etico che non voleva compiacere ulteriormente l’istrionico Manson, venuto a mancare in carcere nel 2017 per un’emorragia intestinale. Sta di fatto che, morto Manson, due, tre, quattro prodotti hanno iniziato a venire alla luce. Sicuramente concepiti quando il criminale era ancora in vita, è suggestivo pensare che con la morte di Manson il suo potere abbia iniziato a ritirare i tentacoli e che Hollywood abbia iniziato a digerire il lutto che l’ha colpita al cuore in quella tragica notte dell’estate del ’69.
Uno, nessuno, centomila. C’era una volta…a Hollywood, Mindhunter, Charlie Says e The Haunting of Sharon Tate
Bisogna sottolineare che questa impennata di interesse nei confronti di Manson è interessante, sì, ma non inedita. La figura di questa rock star mancata (un aspetto particolarmente ben raccontato in Charlie Says) ha ispirato diversi prodotti artistici, dalle canzoni ai cortometraggi, ad altri diversi film di finzione e documentari. Non ultimo, per quanto non ben accolto dalla critica americana, è The Haunting of Sharon Tate con Hilary Duff nella parte della protagonista Sharon Tate. Come suggerisce il titolo, il punto di vista in questo caso si sposta sulla vittima più famosa della strage la cui fine è particolarmente toccante dalle sue ultime parole, che pregavano i suoi carnefici di lasciarla in vita giusto il tempo di dare alla luce suo figlio.
Non occorre interpretare, la dinamica degli omicidi e la dottrina di Manson sono ripetute in maniera piuttosto fedele in tutte le rappresentazioni qui citate: il vivere qui e ora, senza preoccuparsi del passato, la retorica razzista dell’Helter Skelter, il complesso di Cristo di Manson ricorrono tanto nell’intervista riportata in Mindhunter tanto nel racconto della Family in Charlie Says. In particolare, l’incontro tra Manson di Mindhunter (qui interpretato da Damon Herriman), Holden (Jonathan Groff) e Bill (Holt McCallany) mette in luce in maniera avvincente il bluff dietro a questa figura così imponente. Con la sua consolidata maestria nell’insinuare la tensione nei dettagli, Fincher mette in scena una delle rappresentazioni più efficaci della follia umana.
Puck sanguinario, maestro del paradosso e dell’inganno, Manson riflette nella sua imprevedibilità la follia della società contemporanea e l’istinto violento alla base di tutte le interazioni umane. Manson è il nostro specchio: per questo ci terrorizza ancora – e probabilmente lo farà per sempre.