Marlon Brando: le prove più tormentate di una leggenda del cinema
Marlon Brando nella sua iconica e superlativa carriera ha saputo donare spessore e conflitto ai personaggi da lui interpretati come se li avesse liberati dal tempo, come se non appartenessero solo alla struttura filmica, con l’ambizione di dover essere vero sempre, proprio perché per natura la verità non è succube del tempo.
Se dovessimo compiere una scelta di pancia, viscerale, e immaginare i suoi ruoli più coinvolgenti non potremmo che essere rapiti da tre immagini ormai cult: le mani che con pacatezza e riserbo accarezzano la barba compiaciuta e statica di un boss ripreso nella sua penombra di uomo epico e dannato, il volto scarno e fragile di un colonnello nel suo apice d’orrore e la maschera controversa in cui subentra la trivialità sessuale di un’amante ormai celebre quanto quelli di Magritte.
Marlon Brando: le tre prove più memorabili di una leggenda del cinema
Ma partiamo senza ordine, la questione dell’amore al cinema e soprattutto la questione della sessualità nel film Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (scopri qui il confronto tra i due maestri della sensualità: Bernardo Bertolucci e Gaspar Noé). Assistere alle pulsioni dinamitarde dei due amanti è equivalente a leggere un libro al contrario, con apici di seduzione in cui niente è irrilevante, i colpi di scena sono permeati e intrinsechi nella narrazione in cui non sono le vicende a segnare il destino dei personaggi ma loro stessi sono complici di ciò che non deve accadere. L’amore non deve accadere e Marlon Brando è il volto dell’incomunicabile deiezione anti-emotiva, la narrazione avviene attraverso il freddo lirismo del corpo umano: nessun nome, nessun passato da condividere, nessun presente da affrontare, solo un gesto eterno figlio dell’erotismo che intercorre tra i due protagonisti confinato in un non luogo in cui perdersi, in cui non divenire, non essere mai null’altro che un significante senza significato, lo specchio avulso del nulla in cui i sentimenti sono le uniche impervie strade per evadere dall’anonimato.
Il capolavoro del cinema dove riesce a raccontare una solitudine dismessa e un po’ mentita, in cui non riesce proprio a divincolarsi dal male che lo abita è Apocalypse Now. Sublime rappresentazione del romanzo di Conrad, ovviamente di sola ispirazione: Cuore di Tenebra nella guerra del Vietnam è come Le 120 giornate di Sodoma durante la repubblica di Salò. Pasolini compie uno slancio romantico nel senso letterario del termine in cui misurare l’inferno nei gironi sadici della realtà fascista, e d’altra parte Coppola dirige un’invettiva sagace e lungimirante molto simile negli intenti. Marlon Brando, che nel film interpreta il Colonnello Kurtz, è il climax e l’anticlimax, il paradosso e la regola, l’uomo che conosce le brutture della guerra, del mondo, dell’uomo e non se ne distanzia, accoglie il male e gli orrori che rappresenta e ne veicola ogni pluralità. La condanna che lancia il romanzo verso il colonialismo viene sostenuta da un personaggio devastante e determinante quale sarà Kurtz nella pellicola: Milius e Coppola riformulano la storia in chiave bellica indagando maggiormente su quello che è l’impatto e l’approccio mentale alla decadenza. La pellicola ha due condotte, inseparabili, l’una concerne trasversalmente l’iconografia del romanzo e la devastazione fisica e morale di un’oriente oltraggiato dagli invasori, l’altra è la vera apocalisse, quella umana, e, come da titolo, l’irruenza e l’istantaneità di tale catastrofe è il riflesso del malessere dell’uomo moderno: vittima e carnefice, destinato a subire inesorabilmente, con il raziocinio e la logica di un oratore e l’irrazionalità di un guerriero. Il contrasto reale avviene a livello di immagine quando musica e narrazione sembrano scollegati e parlare due lingue differenti, anche se la dimensione in cui si muovono è la stessa tragica contraddizione che ha un peso specifico anche se filtrato da una cinepresa. L’uomo è il perno, come se Coppola ritrovasse la scintilla illuminista per poter declinare le ombre non come antagoniste ma come strumento portante e aberrante di quel tempo, in cui avvenivano le devastazioni del Vietnam.
Ma per concludere questo viaggio controverso attraverso i suoi personaggi, l’unico che sembra possedere una certa nobiltà è Vito Corleone, paradossalmente figlio di un tormento più dolce; ancora una volta Coppola dirige Marlon Brando e assieme attraversano le cosche malavitose di una famiglia newyorchese che si divide tra le celebrazione funerea di un immaginario mafioso e la realtà familiare che ne consegue, primo e ultimo scenario della pellicola, unica vera colonna portante de Il Padrino in quanto uomo e del padrino in quanto capo di una gerarchia. Quel ruolo è irrimediabilmente preda di una caducità poiché non appartiene a nessuno in nessun senso, il padrino in quanto tale è uno specchio ideale nel quale potersi lasciare sovrapporre, diventato nell’immaginario collettivo la zavorra di un passato americano e la condanna di una realtà italiana.
Marlon Brando ha una mimesi ineguagliabile, forse la più strutturata e studiata della sua carriera, lo spettatore non segue la sua storia solo con ardore e interesse nonostante non sia poi un personaggio positivo ma si viene coinvolti nelle tragedie familiari e lavorative, per cosi dire, come se si stessero vivendo da molto vicino.