Maternità surrogata: film e serie TV per riflettere sulla GPA

Cosa significa che la gestazione per altri - in sigla GPA – è diventato "reato universale", perché non è giuridicamente sostenibile e quali sono le serie TV; e i film da vedere per riflettere su un tema controverso e da sempre terreno di scontro politico.

La gestazione per altri, talvolta sprezzantemente chiamata “utero in affitto” o “maternità surrogata”, è una forma di procreazione assistita che permette a una coppia infertile di avere un figlio grazie a una terza persona. Vi ricorrono sia coppie eterosessuali sia coppie omosessuali: le prime lo fanno in misura maggiore rispetto alle seconde e spesso per ragioni mediche. La terza persona, che sceglie di donare il suo utero, nel quale vengono impiantati embrioni fecondati i in vitro, lo fa o in modo altruistico o dietro compenso che la coppia committente è tenuta a corrisponderle. In molti Paesi è legale, in altri no. La regolamentazione varia di Paese in Paese ed esistono Paesi in cui la pratica non è né perseguibile né disciplinata da leggi chiare. 

In Italia la GPA è illegale dal 2004. L’articolo 12 della legge n. 40 recita che è punibile con la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità». Dopo il voto del Senato – 84 sì, 58 no, nessun astenuto – dello scorso mercoledì 16 ottobre, il ricorso alla gestazione per altri, appunto già vietato da vent’anni in Italia, diventa anche “reato universale”, vale a dire sanzionabile, secondo la legge italiana, anche se la GPA viene praticata all’estero. Molti giuristi hanno però sottolineato come l’espressione “reato universale” sia fuorviante, più retorica che giuridicamente sostenibile, in quanto non esistono reati universali ma solo reati punibili secondo una giurisdizione penale universale, come ad esempio i crimini di guerra.

Dalla Bibbia a Friends, senza dimenticare l’ancella di Atwood, l’altra donna che dona volontariamente (o no) l’utero è motivo ricorrente di letteratura, cinema, tv

La questione, di carattere bioetico, è da sempre controversa, anche se persino la Bibbia ci racconta di una donna, la schiava Agar, che dona il suo utero a Sara perché possa dare un figlio al marito Abramo. Il racconto compare nella Genesi: «Sara, moglie di Abram, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar, [2] Sara disse ad Abram: “Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli”. Abram ascoltò la voce di Sara». La rappresentazione letteraria, cinematografica e seriale della pratica della GPA conta su numerosissimi altri contributi. Già nel 1997, ormai 27 anni fa, nella quarta stagione della celeberrima sit-com Friends, uno dei sei personaggi protagonisti, Phoebe, si offriva di gestare i tre figli gemelli del fratello e di sua moglie. Una scelta altruistica che non le risparmia né gioie né sofferenze. Anche uno degli episodi della serie antologica del 2019 Modern Love (Prime Video), tratta da alcune storie vere raccolte nel tempo dalle colonne del New York Times, affronta il tema della relazione tra una coppia – in questo caso, una coppia omosessuale – e la donna, una senzatetto, che ha accettato di portare in grembo loro figlio. 

Non è un dono fatto volontariamente, secondo un desiderio altruistico, ma un ‘furto’ attuato con l’estorsione, quello che invece subisce la protagonista del Racconto dell’ancella, romanzo distopico di Margaret Atwood, iniziato nel 1984, durante un periodo di permanenza a Berlino Ovest, e completato l’anno successivo in Alabama: il romanzo è stato adattato a serie tv (ora su Prime Video) nel 2017 e conta sull’interpretazione magistrale di Elisabeth Moss nel ruolo di Difred. Il nome del personaggio, appunto Difred (nell’originale inglese, Offred), significa “proprietà del comandante Fred”. In un’immaginaria società retta da un regime teocratico di ispirazione veterotestamentaria – l riferimento è qui a un altro passo della Genesi: «Rachele, vedendo che non partoriva figli a Giacobbe, invidiò sua sorella, e disse a Giacobbe: “Dammi dei figli, altrimenti muoio. Giacobbe s’irritò contro Rachele, e disse: “Sono forse io al posto di Dio che ti ha negato di essere feconda?”. Lei rispose: Ecco la mia serva Bila; entra da lei; ella partorirà sulle mie ginocchia e per mezzo di lei, avrò anch’io dei figli“»–, le donne già anziane e quelle sterili sono considerate ‘non donne’, secondo un’inquietante sovrapposizione tra fertilità e femminilità. In una società rigidamente divisa in classi, la moglie del Comandante Difred, sterile – ma è possibile che lo sia anche lui –, rischia la marginalità e il biasimo; ecco allora che Difred viene ridotta alla sola funzione uterina, considerata alla stregua di un contenitore ospitale e utilizzata dal Comandante Fred come schiava sessuale in grado di generare un figlio che possa poi essere allevato dalla coppia padronale come proprio. 

A Body that Works (Netflix): tutto sulle mie madri. Una serie israeliana da recuperare con urgenza

A problematizzare la questione della gestazione per altri e la relazione che tale questione intrattiene con l’autodeterminazione femminile – vietare la GPA è esercitare controllo sulla libera scelta delle donne di ‘usare’ il proprio corpo o serve a evitare la strumentalizzazione del corpo femminile da parte di altri? – è anche una serie tv israeliana molta ben scritta, reperibile nel catalogo Netflix, dal titolo eloquente A Body that Works. Segue le vicende di Ellie, editrice di successo alle prese con uno scrittore-star con cui spesso si scontra, una donna sposata con “l’uomo perfetto” che, però, non riesce a dare a quest’uomo “perfetto” un figlio. Il suo utero non è accogliente; il suo corpo, a differenza della sua mente, s’è inceppato, ha frenato (e franato) proprio là dove dovrebbe crescere non solo un feto, ma anche il frutto concreto di un desiderio di genitorialità condiviso. Il corpo di Chen, ragazza già madre, piuttosto spiantata, invece ‘funziona’ ed è in grado di accogliere il figlio di Ellie e Iddo. Entrambe le donne della storia la donna economicamente forte e al contrario emotivamente fragile, che non riesce a diventare madre naturalmente; la donna economicamente debole e al contrario emotivamente forte, che riesce a gestaresono ridotte dalle loro controparti maschilipadri, mariti, ex compagni –  a funzioni: funzioni ‘funzionanti’ o ‘malfuzionanti’ a seconda del parametro di riferimento. L’introduzione dell’elemento dispari, la gestante ‘affittata’, diventa allora, nel dramma, l’occasione di una resa dei conti con sé stessi, una terzietà necessaria ad assumere un punto di vista diverso rispetto all’estraneità rappresentata dall’altro e soprattutto rispetto a quella interna a sé, a quella parte del desiderio di generare che resiste all’elaborazione consapevole, che resta in fondo aliena e incomprensibile, ambiguamente invischiata nel suo contrario desiderio di sabotare la generazione. La maternità biologica di Chen serveed è qui il dono ‘assoluto’ del personaggio, che oltrepassa di gran lunga il compenso economico ricevutoa Ellie per assumere simbolicamente la maternità impedita dal corpo, per accogliere quell’impedimento non solo come ferita (soprattutto narcisistica), ma anche come occasione di ‘gestare’, se non non un altro corpo, un desiderio autentico di dare al mondo.

Madre de alquiler (Netflix): se la maternità surrogata diventa una soap opera messicana

Di diversa qualità rispetto alla precedente, la serie Madre de Alquiler, anch’essa disponibile agli abbonati Netflix, ci mostra, nell’arco di 24 episodi da 40 minuti ciascuno, il ‘sacrificio’ di Yeni, una donna messicana di origini amerindie costretta a ‘vendere’ il suo utero a una coppia sterile – Julia e Carlos – per salvare il padre dalla prigione. La detenzione del padre di Yeni è legata a un omicidio avvenuto durante una sparatoria organizzata dalla madre di Carlos: la gestazione della donna per conto della coppia s’inserisce in un intreccio più complesso che dipana anche dinamiche malavitose. I temi affrontati dalla serie sono molteplici e, proprio a causa di questo affollamento, la trattazione della questione della legittimità del ricorso a un utero in affitto viene affrontata in modo più superficiale di quanto invece avrebbe meritato: è comunque interessante accogliere il punto di vista adottato dalla drammaturgia. Nel contesto della società messicana, una società spiccatamente classista segnata da profonde disuguaglianze economiche, la maternità surrogata può configurarsi come una forma di sfruttamento, in cui a fare le spese, materialmente e psicologicamente, più che la coppia committente, è la gestante

La petite (Prime Video): un nonno disposto a tutto per adottare la nipote orfana, nascitura grazie a GPA

Guillaume Nicloux, regista, scrittore e sceneggiatore francese, firma un film, dal titolo La Petite, con protagonista Joseph (Fabrice Luchini), un uomo alle soglie dei settant’anni colpito dal lutto della morte del figlio. Si può trovare su Prime Video, con l’abbonamento Infinity Plus che permette l’accesso alla visione di una vasta scelta di film internazionali. Chi è la “piccolina” del titolo? È la figlia che il figlio del protagonista, scomparso con il compagno Joachim a seguito di un incidente aereo, ha ‘commissionato’ a una giovane donna di Gand, già madre di una bambina di nove anni. La morte dei genitori espone la piccola non ancora nata alla possibilità di essere adottata da un’altra coppia: Joseph, che non era mai riuscito a stabilire con il figlio un rapporto, ingaggia allora una lotta senza sconti per poter adottare lui la bambina che il figlio morto ha desiderato di avere con il suo uomo. Un’adozione che, in luogo di trasformare Joseph in un nonno, gli permette di rammendare il rimpianto di non essere mai stato veramente padre, se non in senso esclusivamente biologico. Con dolcezza ‘alla francese’, il film solleva allora una questione fondamentale e fondamentalmente psicoanalitica: chi può dirsi ‘padre’, colui che genera per mezzo di un seme o colui che, abbia generato o meno, adotta simbolicamente il figlio, lo riconosce come proprio al di là dell’attribuzione formale di un cognome, se ne fa responsabilmente carico fino alle più radicali conseguenze?

Sole (Prime Video): diventare padri, al di là della biologia, per diventare grandi

Anche in Sole, lungometraggio di debutto di Carlo Sironi del 2019, disponibile su Prime Video, la nascita di un figlio, che la giovane polacca Lena sta portando in grembo perché possa essere cresciuto da Fabio e Bianca, una coppia infertile, è l’occasione per Ermanno, nipote del futuro padre Fabio, di interrompere uno spirale distruttiva di dissipazione di sé e delle sue possibilità di individuarsi come soggetto adulto. Quando lo zio Fabio gli chiede infatti di fingersi padre biologico del figlio di Lena, Ermanno, che trascorre le sue giornate giocando alle slot machine, per rispetto nei confronti dello zio, la sua unica famiglia, non riesce a sottrarsi alla richiesta. L’avvicinamento a Lena e al bambino che sta per mettere al mondo è l’inizio, per Ermanno, di un viaggio di ricostruzione, di un’assunzione di responsabilità che gli permette di diventare grande, in primo luogo padre di sé stesso. Pur indirettamente, questo film affronta il tema della maternità surrogata per mostrare l’ambivalenza della genitorialità quale processo psichico di interiorizzazione di una funzione non per forza coincidente con il dato biologico: avere un figlio a volte è una scelta, altre no; a volte risponde al desiderio di dare la vita a un altro essere umano, altre volte di dare la vita a sé stessi, di diventare, oltre che genitori di un figlio, genitori di sé stessi, soggetti pienamente adulti e responsabili. Come nel caso di Sole e del film precedente, La petite, a volte sono i figli a dare o restituire la vita ai genitori. 

Il filo invisibile (Netflix): la maternità surrogata dal punto di vista del figlio

Distribuito nel 2022, Il filo invisibile, a differenza dei film precedentemente elencati, si mette dalla parte del figlio che, grazie a una madre surrogata, è venuto al mondo (e Venuto al mondo è, non a caso, anche il titolo del film di Sergio Castellitto del 2012, in cui ugualmente una coppia sterile ricorre a una giovane ragazza bosniaca per avere un bimbo). Leone è infatti nato grazie alla generosità di Tilly, una donna californiana che l’ha portato in grembo per permettere ai suoi due papà di diventare genitori. Sedici anni dopo, è un adolescente italiano come tanti, ma da lui gli altri si aspettano che sia ‘diverso’. Che, ad esempio, come i papà, si innamori di ragazzi e non di ragazze. Eppure, non c’è determinismo che tenga: la scelta identitaria o di orientamento sessuale, ammesso e non concesso che possa essere definita una volta per tutte, non è mai automatica. Al di fuori degli schemi, c’è la vita; c’è il desiderio che deve potersi rivelare nella sua singolarità. Il filo invisibile, film di Marco Simon Puccioni, interpretato da Filippo Timi, Francesco Scianna e Francesco Gheghi, s’apre, con i toni misti di dramma esistenziale e commedia pop, al racconto di un’adolescenza stretta tra i pregiudizi dei pari e l’educazione libertaria dei genitori sensibili alla lotta per i diritti civili. Un’adolescenza legata ancora, da un filo invisibile, all’infanzia: lì ha origine chi siamo, ma non è una sentenza. Soltanto un’occasione