Editoriale | Matteo Garrone e l’amore per gli ultimi: la società raccontata dal regista romano
Dogman di Matteo Garrone si inserisce in un percorso artistico sempre più chiaro: al centro della poetica del regista romano, c'è un amore profondo per le classi più umili della società. Ecco un'analisi del tema, attraverso lo stile straordinario dell'autore italiano che ha conquistato Cannes 2018
Dogman di Matteo Garrone è stato un successo annunciato. Ottima la campagna di lancio del film, interessante lo spunto narrativo scelto dal regista romano, mai scontato o prevedibile il percorso artistico che è andato a convergere in questo affresco di vita crudo e totalizzante. Ancora una volta, Garrone resta estremamente fedele a se stesso, evitando, tuttavia, l’errore di altri suoi colleghi, la cui coerenza stilistica rischia di sembrare autoreferenziale e ridondante: Garrone no, Garrone non si ripete, si perfeziona. Dalle piccole produzioni romane al confronto con la grande Hollywood, il regista riesce a non perdere di vista neanche per un momento la sua cifra, andando a pescare storie e personaggi che potrebbero tra loro conoscersi, capirsi e condividere pensieri e ambientazioni.
Nei racconti del regista non c’è giudizio di alcun tipo, ma uno sguardo diretto e spassionato, riflesso nella tecnica quasi documentaristica e nella scelta – nella maggior parte dei casi – di attori poco noti, la cui suggestione parte innanzitutto da spiccate prerogative fisiche. Come nel cinema di Pasolini, ogni dettaglio nei film di Garrone è emanazione di un pensiero politico libero, che non si riferisce a uno schieramento preciso, ma supera i confini di destra e sinistra, rivolgendosi direttamente alla base.
Matteo Garrone, il mondo come una favola nera
Il modo in cui Garrone si avvicina ai suoi personaggi fa del suo cinema un’occasione di grande impegno sociale. Il suo sguardo non giudica, non prova pietà, non evidenzia il grottesco; c’è una profonda dignità nei brutti, negli emarginati, negli squattrinati, che diventano – come nelle favole di Esopo – emblemi di umanità, simboli pronti a farsi carico di tutti i paradigmi del mondo. Marcello (Marcello Fonte), il Dogman della periferia romana, ad esempio, dà corpo e voce alla sopportazione del debole che si trasforma, in casi estremi, in riscatto e riappropriazione violenta della propria dignità di essere umano. Ogni storia di Garrone, d’altra parte, tratta di temi universali: l’isolamento dello straniero in Ospiti (1998), il desiderio e il possesso ne L’imbalsamatore (2002), l’entropia tra vita e morte ne Il racconto dei racconti (2015). Anche la prossima impresa ricadrà, come sappiamo, sull’adattamento di un romanzo fiabesco, il più importante di tutta la storia letteraria italiana: Pinocchio. Ognuna delle tappe di questo percorso, in cui si inserisce a pieno titolo la storia ormai leggendaria del Canaro della Magliana, è un capitolo di questa antologia umana su cui Garrone concentra la sua poetica, come un Basile contemporaneo deciso a sviscerare la complessità della natura in una serie di meravigliosi racconti. Che si parli di orchi o di camorristi, poco importa: la realtà, per quanto trasfigurata, resta una fonte inesauribile di storie alla quale il regista e il suo pubblico non possono resistere.
Matteo Garrone: l’amore per gli “ultimi”
Nella lirica scena di chiusura di Estate romana (2000), in cui i personaggi più bistrattati tornano a casa trionfanti col mondo fissato sul tettuccio della loro macchina sgangherata, Garrone disegna una delle immagini più lampanti e emblematiche di tutta la sua narrativa. Abbiamo a che fare con una versione laica e ribaltata del famoso passo evangelico – Gli ultimi saranno i primi – che ha fatto del sacrificio in nome di un premio ultraterreno lo stigma secolare delle classi più povere. Gli ultimi di Garrone non sopportano, anzi: essi raschiano via con la forza o con la fortuna quel briciolo di epica sopravvissuto alla contemporaneità. Si parte tutti da una condizione di minoranza – che sia economica, intellettiva, fisica o sociale – in cui si accumula energia per il grande scatto finale, che porterà al rovesciamento totale dello status quo. È un racconto rivoluzionario, nel senso stretto del termine, è la storia di come tutto ciò che è compresso tenderà prima o poi ad esplodere. Visivamente parlando, l’operazione di Garrone si inserisce in una tradizione di cantori del popolo che ha scritto alcuni capitoli fondamentali della storia dell’arte, di cui la carne, il sangue, la pelle ruvida e sporca dei santi di Caravaggio ne sono gli esempi più illustri. Così come nei film del regista romano, nelle tele del Merisi grandi temi sono affidati a protagonisti umili, in faccia alla rigida e aulica committenza: far adorare prostitute come madonne, assassini come eroi: ecco la beffa dell’artista, ecco il suo indiscutibile genio.
Violenza e riscatto nei film di Matteo Garrone
Nei film di Garrone l’omicidio è uno strumento di riscatto, e quasi sempre una reazione a un abuso subito, più sottile e reiterato. Anche nel Racconto dei racconti, che – per quanto sublimate nel clima fiabesco – non lesina scene crude ed esplicite, diventa presto evidente che, in uno scontro tra carnefice e vittima, il dialogo non è sufficiente. Questa visione affatto perbenista della convivenza tra esseri umani è resa da Garrone con estrema pulizia, senza alcuna sbavatura di carattere voyeristico o moralista. Persino nella trasposizione della vicenda del Canaro della Magliana, balzata agli onori della cronaca nera degli ultimi trent’anni proprio per la gran quantità di dettagli cruenti che regalava al pubblico, Garrone evita l’indugio, seccando ogni morbosità in un racconto essenziale, in cui ogni gesto violento che sceglie di mostrare è necessario e sofferto. Per questo motivo, a differenza di tanti altri autori che perpetuano nei loro film una vera e propria esaltazione estetica della violenza, Garrone riesce a dare una spiegazione sensibile anche agli aspetti più neri del comportamento umano.
Come si arriva a uccidere un altro essere umano? Quali sono i meccanismi alla base della rabbia? Quando le regole del vivere civile diventano una gabbia che protegge l’ingiustizia e alimenta i soprusi ai danni dei più deboli, allora emerge una legge primordiale più forte, quella della sopravvivenza, grazie alla quale l’eroe trova sempre gli strumenti per affermarsi. Cos’è la storia degli uomini, se non un racconto di costante rivoluzione, di morte e di sopravvissuti che si cibano dei residui degli sconfitti? La potenza di un film, quando questo nasce dal pensiero e dalle intenzioni di chi il cinema lo sa fare e sa perché lo fa, è tale da poter aprire la porta a riflessioni sconvolgenti: compito del pubblico accoglierle, capirle e farle proprie.
La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra – Mao Tse-tung