Mediterraneo: il significato del film di Gabriele Salvatores
Mediterraneo è l’atto finale di una trilogia cinematografica sulla fuga. Ecco il significato del film di Gabriele Salvatores.
Ancora oggi, a 29 anni di distanza, Mediterraneo di Gabriele Salvatores, rimane uno dei film italiani più amati, nonché dei più discussi, dal momento che a molti l’Oscar come Miglior Film straniero parve eccessivo, e parte della critica non sembrò capire la scelta della Academy. Il grande Roger Ebert, confessò di essere uscito a metà film non trovando un senso in quello che vedeva.
Di certo un film che, se da una parte appariva conforme alla classica immagine degli italiani un po’ sfigati ma perbene del secondo conflitto mondiale (sulla quale ci sarebbe da discutere) dall’altro in realtà proponeva tematiche e messaggi tutt’altro che superficiali, per quanto forse un po’ troppo personali per arrivare completamente a chi Salvatores non lo conosceva.
Sicuramente un film molto italiano, per i dubbi ed i quesiti che poneva, per l’angosciosa e opprimente dimensione temporale, mitigata dalla bellezza della natura, dagli abitanti di quell’isoletta in cui quel piccolo drappello di fanti veniva abbandonato dalla storia e dalla guerra, metafora di quei trentenni che, negli anni 90, si sentivano persi e senza futuro.
Mediterraneo: una pattuglia sperduta nell’Egeo
Mediterraneo, come noto, è ambientato ai tempi della fallimentare offensiva italiana contro la Grecia, nel giugno del 1941, e vede protagonista una piccola pattuglia esplorante mandata in una isoletta dell’Egeo, per crearvi un punto di osservazione.
Comandata dal Tenente Montini (Claudio Bigagli), e composta dal Sergente Lorusso (Diego Abatantuono), dall’attendente Farina (Giuseppe Cederna), dal marconista Colasanti (Ugo Conti) e dai soldati Noventa (Claudio Bisio), Strazzabosco (Gigio Alberti), e dai fratelli Munaron (Memo Dini e Vasco Mirandola), la squadra in breve tempo si troverà isolata dal conflitto bellico, tagliata fuori dal mondo. Sarà solo questione di tempo prima che i soldati diventino un tutt’uno con i pacifici abitanti dell’isola, con il suo clima, abbracciando una dimensione esistenziale che li porterà a riconsiderare completamente la loro esistenza e il mondo per come lo conoscono. Alla fine, qualcuno tornerà in Italia, qualcuno no, ma tutti si troveranno profondamente cambiati, ancora in fuga dalla realtà e da loro stessi.
Mediterraneo è un film generazionale
Il film di Salvatores è solo apparentemente una malinconica avventura di un gruppo colorito di italiani in guerra. La realtà, è che il regista, ispirandosi al bellissimo Sagapò di Renzo Biason, creò l’atto finale di una trilogia cinematografica sulla fuga, composta oltre che da Mediterraneo, anche da Marrakech Express e Turné.
Il tema, la fuga, era connesso alla generazione del regista, di quelli nati negli anni 50 o inizio 60, la generazione boomer, che si trovava sulla soglia dei quarant’anni, alle prese con lo stravolgimento del mondo e del paese in cui erano cresciuti.
Era il tempo della fine della Guerra Fredda, della caduta del Muro di Berlino, il paese di lì a poco sarebbe naufragato nello scandalo di Tangentopoli, aveva perso la bussola morale e gli ideali (purtroppo o per fortuna), ed trentenni, quasi quarantenni, non potevano più seguire la direzione che la giovinezza ed i padri avevan loro dato, durante gli anni della contestazione e del dissenso.
Erano una generazione di mezzo, troppo vecchi per cambiare il mondo sul serio, troppo giovani per avere la leadership di un paese in cui tutto cambiava, ma il potere rimaneva addosso a nomi nuovi da vizi antichi.
La fuga, solo la fuga poteva salvarli, quella fuga che in Mediterraneo riviveva nelle parole di Henri Laborit: «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare».
La fuga è l’unica via di salvezza per Salvatores
Niente più idoli o leader, niente più partiti o politica o ideali, esiste solo l’individuo, la sua libertà, le sue scelte ed i suoi errori per Salvatores, e i soldati in quell’isola li rappresentano appieno. Anche loro hanno perso gli ideali, sono assediati da un realismo terribile, non sanno più che fare.
La fuga è onnipresente in Mediterraneo. Il soldato Noventa cerca sempre di disertare per tornare dalla moglie e dal bimbo, Montini cerca di scappare dall’essere un soldato, Lorusso dalla sua insicurezza, Strazzabosco dal dolore, Colsanti dall’ombra del Sergente, i fratelli da una vita fatta di ignoranza e dubbi. E Farina, il più debole, cerca di fuggire da una vita che fino a quel momento è stata fatta di solitudine e freddezza, abbraccia la sua salvezza con Vasilissa. Lui riesce a fuggire, ma la fuga è spesso un miraggio o una promessa non mantenuta, con quell’aereo che li riporta alla realtà, quel contrabbandiere turco che li truffa.
E quel finale, con Farina da poco vedovo, che ha riaccolto il triste Lorusso e il redivivo Tenente, che tagliano una melanzana, si affidano alla natura, al quotidiano per dimenticare un paese che non è diventato come sognavano, come volevano, rappresenta proprio quella fuga, quel libertario anelare al domani che è sempre stato al centro della cinematografica di Salvatores.