Capire il narcisismo patologico attraverso Mon Roi – Il mio re, il film di Maïwenn da vedere su Prime Video e MUBI
Narcisismo è un termine su cui si dividono persino gli psicologi: troppo vago e oggi più che mai abusato, può riferirsi a fenomeni tra loro molto differenti. Attraverso l’analisi di un film – Mon roi, di Maïwenn – cerchiamo di fare chiarezza.
La psichiatra e psicoanalista tedesca Karen Horney (1885-1952), nel 1939, a proposito del narcisismo, scriveva: “I fenomeni che nella letteratura psicoanalitica si definiscono narcisistici presentano caratteri molto divergenti. In essi sono inclusi la vanità, la presunzione, il desiderio di primato e di dominio, il desiderio di essere amati unito all’incapacità di amare gli altri, l’appartarsi dai propri simili, la normale stima di se stessi, desideri ideali e creativi, l’ansiosa preoccupazione della propria salute, della propria apparenza, delle proprie facoltà intellettuali. Sarebbe perciò compito assai imbarazzante il dare una definizione clinica del narcisismo. […] In contrasto con l’incertezza della definizione clinica, quella genetica è invece precisa: è narcisista l’individuo che, in fondo, è innamorato solo di se stesso“.
Terreno di difficile agibilità anche per gli addetti ai lavori, il narcisismo – ma bisognerebbe parlarne al plurale, perché tante sono le sue forme – è il grande protagonista del nostro tempo, sia che per tempo s’intenda un’epoca identificata con caratteristiche di rilievo storico e sociale tali da interrompere e segmentare il flusso degli eventi in un quadro coerente di valori ed idee, sia che con tempo s’intenda, più banalmente, la somma delle cronache, l’insieme delle notizie quotidiane. L’ultima volta che abbiamo sentito parlare di narcisismo è stato di recente, a proposito di Alessandro Impagniatello, l’assassino di Giulia Tramontano e del loro figlio (non ancora nato) Thiago: barman della Milano vip, ordinario poligamo, narciso da manuale, se un aspetto proprio del narcisismo non fosse l’impossibilità di ridurre la sua fenomenologia a manualistica, la capacità di mimetizzarsi e adattarsi agli intimi bisogni della vittima – “non era bello, ma con le donne ci sapeva fare” – e quindi di rendersi irriconoscibile a chi non abbia facilità a decifrare i segni, che pure sempre ci sono, se non molto tardi, quando ormai si è instaurata una purtroppo spesso fatale co-dipendenza affettiva. Per ogni narcisista, c’è un(a) dipendente affettivo/a pronto/a a cadere nella trappola di una promessa (non mantenuta, perché impossibile) di amore. Il narcisista non ama mai, perché non può. Non ne è capace.
Di cosa parliamo quando parliamo di narcisismo: tratti narcisistici e disturbo narcisistico di personalità
Disclaimer a inizio lettura: parleremo di narcisisti perlopiù declinando il sostantivo al maschile, ma ciò non significa, naturalmente, che il disturbo narcisistico di personalità riguardi solo gli uomini. Procediamo con un ulteriore previo chiarimento: una cosa è possedere un qualche tratto narcisistico di personalità e un’altra il disturbo narcisistico di personalità. Una persona può possedere tratti narcisistici della personalità, ma ciò non significa che abbia un disturbo di personalità narcisistica: la differenza, più che qualitativa, è quantitativa. Avere un disturbo narcisistico di personalità implica che il problema sia pervasivo e difficilmente reversibile, che vi sia pertanto una certa fissità dei tratti narcisistici. Il disturbo narcisistico è egosintonico; la refrattarietà al trattamento dipende in parte anche dalla mancata consapevolezza del soggetto interessato: un narcisista patologico difficilmente chiederà aiuto perché ha una consapevolezza quasi nulla di sé e non di rado il ‘problema’, riconosciuto sempre da altri e non da lui stesso, è percepito come ragione di vanto. Il narcisista non ha accesso ai propri sentimenti, non è in grado di elaborare delle rappresentazioni mentali su di sé e sui suoi movimenti e moventi psichici, non possiede strumenti di interpretazione; quasi mai è in grado di provare rimorso per gli atteggiamenti maltrattanti e lesivi di cui diviene responsabile senza tuttavia accoglierne la responsabilità.
Il mito antico ci racconta di Narciso indifferente all’amore oggettuale – all’amare qualcuno al di fuori di sé – che finisce per scambiare il proprio riflesso su uno specchio d’acqua per un altro ragazzo, per un oggetto d’amore: la sua perdizione non riguarda tanto (o non solo) un eccesso di energia amorosa rivolta a sé stesso, quanto soprattutto la confusione tra sé e l’altro. Narciso ama la sua immagine duplicata perché non è conscio che quella immagine è un suo riflesso di sé, non sa che gli appartiene: si conosce talmente poco da non essere in grado di capire chi è, di distinguere sé e altro da sé. Il mito spiega già da solo, meglio di ogni trattazione sistematica e specialistica, che cos’è il narcisismo: dipendenza da un altro perché corrisponda un’immagine di chi si è; concezione della relazione in termini inconsciamente strumentali perché l’altro vale appunto soltanto se corrisponde qualcosa, spesso una conferma di valore. E sì, anche amore. Un amore che è chiamato, però, a nutrire illusoriamente un vuoto fondamentale e incolmabile.
Di cosa parliamo quando parliamo di narcisismo: narcisismo sano e narcisismo patologico
Occorre ulteriormente chiarire che il narcisismo non è un male a priori, perché svolge una sua funzione: quello sano è amore per sé stessi, spirito di autoconservazione, energia messa a servizio della propria integrità. Il narcisismo patologico è, invece, controintuitivamente, una deficienza di amore narcisistico sano: il vero narcisista – il narcisista disturbato, per intenderci – non si ama troppo, anzi si ama troppo poco e appunto non si conosce, non sa chi è, non è strutturato identitariamente. Ha così poco amore per sé stesso che dipende dagli altri affinché questi gli diano ciò che gli manca. Il narcisista non è dunque uno che rifugge le relazioni, tutt’altro: come nel mito, ha bisogno che l’altro rifletta ciò che è perché lui per primo non lo sa.
Chi ha un disturbo narcisistico di personalità o chi, se non un disturbo vero e proprio perché non così cristallizzato, possiede comunque tratti narcisistici pervasivi e gravi, è tale perché ha subìto una ferita narcisistica: è stato svilito durante la sua infanzia, non riconosciuto nella sua soggettività, considerato dai genitori come estensione o strumento di vantaggio oppure, ugualmente, sopravvalutato, idolatrato, usato unicamente per restituire ai genitori stessi conferme del loro valore personale, valore di cui per primi si sono sentiti insicuri, senza riuscire a riconoscere ed elaborare tale insicurezza attraverso l’attuazione di operazioni mentali di significazione del vissuto d’angoscia.
Il narcisismo è una sofferenza profonda proprio perché inconsapevole a chi la prova (non a chi la subisce o la persona su chi ricade), radicata e faticosamente trattabile – se non intrattabile, nei casi più gravi – con gli strumenti della psicoterapia: oggi è, inoltre, sempre più frequente, in quanto i modelli educativi, anziché incoraggiare la pratica dell’ascolto di sé e la dialettica tra accettazione dei limiti e fiducia nelle proprie possibilità, suggeriscono la scorciatoia della vampirizzazione e della predazione altrui ai fini di ottenere dalla relazione duale non sostegno affettivo e autentico riconoscimento, ma gratificazioni e garanzie rispetto alla conservazione di una condizione di potere e di controllo, di intangibilità e congelamento degli affetti. Il narcisista può fare molto male a chi – il dipendente affettivo – ne rimane sedotto e innamorato: talvolta la relazione abusiva a cui lo espone produce un trauma, i cui sintomi sono tanto fisici quanto psicologici.
Capire il trauma narcisistico con un film: analisi di Mon roi di Maïwenn, scavo archeologico di una catastrofe di coppia
Un film che consente di comprendere a perfezione il trauma narcisistico – da definizione di Pier Pietro Brunelli, “il trauma da narcisismo è una condizione di sofferenza psicologica contemporanea o conseguente alla relazione sentimentale con un narcisista patologico” – è Mon roi – Il mio re, con Vincent Cassel ed Emmanuelle Bercot protagonisti e diretto da Maïwenn. Da tempo è disponibile agli abbonati Prime Video e, da pochi giorni, in lingua originale anche su MUBI: consigliamo di vederlo sottotitolato per poter meglio apprezzare la caratura delle interpretazioni offerte da entrambi gli attori protagonisti, straordinari nella loro sottigliezza espressiva, sia mimica sia gestuale sia verbale.
Mon roi muove da un incidente sciistico. La protagonista, Marie-Antoinette (Tony), si rompe un legamento crociato del ginocchio ed è costretta a ricoverarsi in una clinica riabilitativa specializzata. La psicologa della struttura la invita, freudianamente, a interrogarsi sulla ragione di quella rottura facendola riflettere sulla parola ginocchio: in francese, ginocchio si dice genou, omofono di je-nous, vale a dire “io-noi”. Nel ginocchio si compie l’articolazione tra coscia e gamba: è uno spazio di congiunzione, di giuntura, collega una parte a un’altra. Come da gioco di parola suggerito a Tony dalla psicoterapeuta, rompere il ginocchio significa rompere qualcosa del rapporto tra l’io e il noi, tra l’individuo e la coppia, tra il singolare e il plurale. Inoltre, cedere sul ginocchio è un fenomeno corporeo attraverso cui la psiche manda il segnale di una necessità di indietreggiamento: per andare avanti, occorre flettersi all’indietro, scavare dentro una storia alla ricerca di tracce del passato, dei segni utili a compiere un’archeologia di fallimento. È quanto fa Tony: mentre si sottopone a un recupero ortopedico del legamento rotto, si abbandona all’irruzione di flash-back – fa incursione nella memoria sepolta per rimozione, se non consciamente ignorata, ma sarebbe meglio dire che si lascia colpire da frammenti di memoria – attraverso i quali avviene il recupero del legame di coppia rotto (in verità, mai autenticamente stabilito), non per ripristinarlo nella realtà, ma per integrarlo nella coscienza, elaborarlo, comprenderlo a fondo e, così, lasciarlo definitivamente cadere.
Quando incontra Georgio in un locale notturno, Tony è una donna sui quaranta: è un’avvocata di talento, apparentemente forte e volitiva. Nasconde, invece, molto bene delle insicurezze che l’altro fiuta con la precisione di un cecchino: dopo il primo rapporto sessuale, lei chiede rassicurazione circa la normalità della sua apertura vaginale, lasciando trapelare non solo preoccupazioni di conformità, ma soprattutto un vissuto relazionale pregresso di svilimento tanto autoimposto quanto subìto. Georgio è un viveur e ha una personalità spumeggiante, di un istrionismo di cui all’inizio emergono soprattutto gli aspetti positivi: ha la battuta pronta, sa tenere la scena, è in grado di suscitare in Tony divertimento, riso, sentimenti di eccitazione e di leggerezza, intensità di vita, senza tuttavia abdicare (in un primo momento) alla responsabilità del sostegno e della protezione.
La prima fase di una relazione con un narcisista patologico si presenta sempre come un idillio: chi cede alla sua seduzione spesso ha atteso quell’incontro da anni e finalmente si ritrova stordito da un amore appassionato e pieno che arriva tutto d’un colpo e tramortisce con la forza del suo urto. Il narcisista, proprio per il suo deficit di senso del sé, ha per compensazione sviluppato la capacità di incarnare il desiderio dell’altro, ma soltanto ai fini di utilizzarlo come esca per arpionare e blindare la preda: l’impegno che dapprima Georgio mima, precipitando a Tony la richiesta di diventare suo marito e padre di un figlio loro, serve a impressionarla, a dimostrarle di trovarsi di fronte a ciò che aveva sempre desiderato di trovare, a indurla a pensare di aver ricevuto finalmente il suo risarcimento per quella gioia tanto a lungo frustrata e differita. Ma perché Georgio sceglie proprio Tony?
Il narcisista non si accompagna a partner mediocri, ma neanche a partner indipendenti e completamente risolti. Tony è una donna di valore, di grande intelligenza e sensibilità, ma appunto non è fino a quel momento mai riuscita a stabilire relazioni sentimentali soddisfacenti, sconta l’inappagamento amoroso e le insicurezze che ne derivano. Ha una fragilità molto ben occultata. A Georgio lei serve perché, nell’eleggerlo a suo partner, gli dà conferma di valore nel campo in cui si sente più debole: quello intellettuale. Il personaggio interpretato da Vincent Cassel non riesce a interrompere un rapporto di co-dipendenza affettiva – in cui lui svolge il ruolo dell’eroe-salvatore – con l’ex Agnès. È una donna molto diversa da Tony: molto più giovane, molto più bella. È una modella: Georgio fino a quel momento aveva frequentato solo donne provenienti dal mondo della moda. Tony è l’eccezione, ma un’eccezione interessata: se in passato, le sue partner hanno corrisposto a Georgio l’immagine di playboy che potrebbe avere qualsiasi donna, persino la donna-trofeo più bella al suo fianco, Tony, che per lavorare usa le parole e l’intelletto, lo rassicura invece della sua intelligenza, del suo spessore intellettivo.
Mon roi: uno studio intorno all’abuso narcisistico attraverso il ritratto delle maschere e dei mezzucci di un “re(uccio) degli stronzi”
All’inizio tutto appare bello, ma l’amore tanto vistoso quanto superficiale si screpola in fretta: Georgio chiede a Tony di poter vivere in un appartamento separato; Georgio continua ad andare in soccorso dell’ex, con l’obiettivo di mantenerla dipendente da lui e di preservare con lei un legame a lui ‘utile’ in termini narcisistici, un legame che non intende infrangere per alcuna ragione al mondo; Georgio manipola di continuo esasperando Tony, rendendola intrattabile e instabile psicologicamente, odiosa agli occhi degli altri e, quel che più grave, di sé stessa. È riuscito nel suo intento: uscirne bene, affossando lei, innescando il processo distruttivo e insabbiando bene le prove della suIla responsabilità, in un duplice sadismo sia nell’atto di annientamento sia nella mistificazione dello stesso. Il baratro s’avvicina rapidamente e Tony scopre presto che l’altro non è l’uomo che brillante che credeva gli avesse cambiato la vita donandole un amore rumoroso e un progetto di famiglia, ma un bambinone mai cresciuto che non intende assumersi nessuna responsabilità dei suoi comportamenti né accettare i compromessi e le fatiche inevitabili nella costruzione di un rapporto di coppia e di un comune percorso di genitorialità. Quando nasce il loro bambino, Georgio gli impone, senza avere la parvenza di farlo, il nome che piace a lui soltanto: Sinbad, come il leggendario marinaio persiano. E da marinaio sono, infatti, non a caso, le sue promesse di padre. È bravissimo a preservare i suoi interessi – continuare a vivere nel disimpegno, in un eterno palco in cui esibirsi di fronte a spettatori adoranti – e a far credere di essere nel giusto: “del resto”, dice a Tony, “che cosa dovevi aspettarti? Mi hai incontrato in un club notturno, mica in una biblioteca. Non puoi recriminarmi ora ciò che a te, per prima, di me ha affascinato, costringendomi a sconfessare la mia natura di maschio imprendibile”.
I narcisisti ribaltano di continuo la frittata e fanno ammalare gli altri per conservare sé stessi impermeabili a qualsiasi fastidio. I segni, però, ci sono sempre, fin dal primo momento. E non è un caso che, scherzando – e lui scherza, scherza sempre –, Georgio, dopo la prima notte d’amore, si autoproclama “re degli stronzi”. Tony può forse rivendicare di non essere stata avvisata, direbbe lui nella sua indefessa pratica di confusione delle acque? Nel film di Maïwenn, film sui segni per eccellenza – torniamo al genou, je-nous, da cui tutto parte –, è il fratello di Tony, interpretato da Louis Garrel, a rappresentare la coscienza vigile: è lui che storce il naso davanti al cognato che, nascondendosi dietro lo scherzo e ammantando della nobiltà retorica di un termine desueto la crudezza di un insulto, dà alla sorella della “meretrice” e le mette dentro il reggiseno dei soldi; è lui che a Tony fa notare che il marito non è un vero marito se l’abbandona con un bambino piccolo a Natale perché deve ‘respirare’ al di fuori della coppia e lo deve fare in Australia, all’altro capo del mondo. L’altalena di bombardamenti emotivi e di attentati all’integrità narcisistica e affettiva che Tony sperimenta dal giorno in cui incontra Georgio fino alla risoluzione – guarigione? – del legame, dieci anni dopo, ci viene rappresentata per momenti, a episodi: di ciascuno Maïwenn, con maestria drammaturgica, ma anche grande intelligenza ‘clinica’, ci mostra la significatività e nel contempo la difficoltà di decriptazione. Perché i segni ci sono sempre, vero, ma non è sempre facile riconoscerli e, a volte, soprattutto, ci vuole molto coraggio per dar loro il giusto credito. Autoingananrsi è la via più facile alla sopravvivenza, ma è anche, sul lungo periodo, la più costosa. Mon roi è un invito a (ri)scoprire la propria disponibilità all’attenzione. Quell’attenzione che spesso si rivela salvifica.