Editoriale | Oscar 2020: i “parassiti” che hanno conquistato l’America
Parasite del coreano Bong Joon-ho è, a sopresa, il trionfatore degli Academy Awards. Una vittoria che fa riflettere anche sullo stato del cinema americano e su alcune sue croniche questioni irrisolte...
Cosa ci insegnano gli Oscar 2020? Anzitutto, che un altro cinema è possibile. Possibilmente non americano. L’edizione numero 92 degli Academy Awards viene sbancata a sorpresa – ma non troppo – dal film coreano Parasite, che aveva iniziato il suo lungo cammino vincendo la Palma d’Oro a Cannes. Un trionfo cristallino: 4 statuette comprensive di Miglior Film, Film Internazionale, Regia e Sceneggiatura Originale. Gli Stati Uniti scoprono la Corea del Sud, insomma, come fosse un miracolo calato dall’alto all’improvviso.
Ma il regista Bong Joon-ho ha al suo attivo già 8 film, ed è alfiere di un’industria particolarmente ricca che non vive solo di Kim Ki-duk – e, dunque, di proposta strettamente autoriale – ma anche di suggestioni che riescono abilmente a coniugare approfondimento psicologico e analisi socio-culturale con estetiche e dinamiche tipiche del cinema pop(olare). Bong l’aveva già detto, sul palco dei Golden Globe: se si supera lo scoglio dei sottotitoli e della lingua straniera, ci sono interi mondi da scoprire.
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Parasite trionfa agli Oscar 2020 – Il declino dell’impero americano?
Il suo mondo, nello specifico, è quello di una Seoul fatta di miseria e nobiltà, in cui la lotta di classe diventa un gioco grottesco di subdola sostituzione identitaria. Di norma l’America fagocita e/o vampirizza certe idee, lasciando gli originali nell’oblio, acquistandone i diritti e facendone dei remake di pessima qualità. Con Parasite è accaduto qualcosa di diverso: al film non è stato dato solo il “contentino” del premio per il Film Straniero (come accaduto, sempre per restare in Asia, a Departures nel 2009), ma è stato inserito nella short list per il Miglior Film permettendogli di superare al rush finale opere molto più quotate quali 1917 di Sam Mendes, C’era una volta a… Hollywood di Tarantino e The Irishman di Scorsese.
Questo colpo di scena – mettendo per un attimo da parte l’entusiasmo – fa emergere una certa inadeguatezza di fondo. Come se l’America si arrendesse a chi, oggi come oggi, le storie le sa scrivere meglio di lei, oltre le nostalgie scorsesiane / tarantiniane e superando anche di slancio la sovrastima di pellicole elevate allo status di capolavori solo perché hanno al loro inerno un singolo elemento particolarmente funzionale (i tecnicismi di 1917, il tratteggio dei protagonista in Joker). Parasite è una storia fresca, brand new, che non deriva da nient’altro e che risplende di luce propria da qualunque punto di vista la si guardi. E la giuria l’ha guardata, eccome, comprendendone appieno l’unicità.
E ora qualcosa di completamente diverso
È una scelta epocale e storica, perché si tratta del primo film non in lingua inglese a vincere l’Oscar più ambito. E The Artist, dove lo mettiamo? Lo mettiamo tra i film francesi, giusto, ma resta di fatto un caso a sé trattandosi di film muto. E a segnalare una diversità di intenti potremmo anche sottolineare come quella di Michel Hazanavicius sia un’opera “derivativa”, visto che omaggia l’industria hollywoodiana. Perché gli Oscar sono per definizione gli Usa che premiano loro stessi, così come accade in Francia con i César o in Spagna con i Goya. E di conseguenza questa insolita apertura verso una narrazione “altra” appare estremamente significativa.
E forse anche, a suo modo, scaltra, perché permette di distogliere lo sguardo da altre questioni che in un diverso momento sarebbero state centrali. Come ha ricordato Chris Rock nel suo monologo iniziale, tenuto assieme a Steve Martin, quest’anno c’era un solo (uno solo!) candidato afroamericano: Cynthia Erivo, nominata sia come Attrice Protagonista che per la Miglior Canzone Originale (“Stand Up”, contenuta nel film Harriet). Un disastro, considerando anche alcune ingiustificate esclusioni come quella di Eddie Murphy, protagonista del film Netflix Dolemite is My Name.
Quello che gli Oscar non dicono
Oscar 2020: non è ancora un Paese per Netflix
Anche di fronte alla questione Netflix, tra le altre cose, si apre una voragine: 19 nomination a film prodotti dalla piattaforma californiana (The Irishman, Storia di un matrimonio, I due papi), e una sola statuetta, andata più che meritatamente a Laura Dern per il film di Noah Baumbach. Ci sono – in modo abbastanza evidente – problemi e questioni irrisolte, che prossimamente dovranno essere affrontati, per riempire questo gap e procedere verso una naturale e fisiologica inclusione oggi di Netflix, domani di Amazon e in futuro di chissà quale altra realtà non strettamente legata alla fruizione in sala.
Se Parasite catalizza e continuerà a catalizzare su di sé in questi giorni tutta l’attenzione, permettendo al resto di restare nascosto sotto al tappeto almeno fino al prossimo anno, è altresì vero che la sua potenza di fuoco oscurerà inevitabilmente anche il resto del palmarès. Passano in secondo piano i grandi ridimensionamenti (Joker, ma anche 1917 e Jojo Rabbit), i pronostici confermati (Brad Pitt, Renée Zellweger, Joaquin Phoenix) e le piacevoli sorprese come il Miglior Trucco al “mimetico” Bombshell e la Migliore Scenografia a Barbara Ling e Nancy High per C’era una volta a… Hollywood. Ma l’invasione dei parassiti di Bong Joon-ho non può passare inosservata, genera stupore e fa sperare – oltre che in un mondo migliore – in un precedente di cui da ora in poi bisognerà sempre tener conto.