Parasite: significato e spiegazione del film di Bong Joon-ho
Cerchiamo di analizzare Parasite, il film di Bong Joon-ho.
È una rappresentazione degli ultimi, del mondo visto da due prospettive opposte, quella che Bong Joon-ho realizza con Parasite, il film vincitore della Palma d’oro alla 72ª edizione del Festival di Cannes.
Proprio come un parassita, l’opera del regista sudcoreano vive anche a spese dei nostri sentimenti, delle paure e degli stereotipi che vivono dentro di noi e che con maestria rimodula in arte per regalarci una visione suggestiva, un ritratto vivido sempre in bilico tra l’ironia e la paura. Parasite si aggancia alla nostra personalità per tessere fili di spontanea empatia con ognuno dei personaggi, per farci vivere la povertà, la ricchezza, la fortuna e la sventura con dedizione e distacco, come se fossimo dentro e davanti allo schermo allo stesso tempo.
Abbiamo già avuto modo di esaminare la struttura triangolare di Parasite, che ci introietta con sagace ironia nella vicenda della famiglia Kim, mostrandoci la loro misera condizione senza forzare troppo la mano sulla drammaticità per poi concederci un’estemporanea boccata d’aria fresca, in un gioco di maschere e bugie che non regge per antonomasia. A darci il colpo di grazia però è un finale poeticamente violento, inatteso ed efferato, ma non privo di speranza. Un finale in cui finzione e quotidianità si ricongiungono, facendosi carico di un messaggio universale e quanto mai attuale.
Parasite: la trama del film
Nel cercare di analizzare e spiegare i contenuti di Parasite è bene innanzitutto capire bene la storia e i protagonisti che lo animano. Come già anticipato, al centro della vicenda troviamo i Kim, una famiglia composta da quattro persone (il padre Ki-taek, la madre Chung-sook, il figlio Ki-woo e la figlia Ki-jung) che si mantiene grazie al sussidio di disoccupazione vivendo alla giornata in un sudicio seminterrato. Quando Ki-woo viene convinto dall’amico Min-Hyuk (in procinto di partire per andare a studiare all’estero) a fingersi uno studente universitario e a impartire lezioni d’inglese alla figlia adolescente dei Park al suo posto, per la famiglia iniziano a palesarsi una serie di opportunità.
Il giovane Ki-woo, infatti, riesce con uno stratagemma a fare assumere la sorella come insegnante d’arte del piccolo Da-song, presentandola come un’artista affermata (cugina di un suo compagno di corso, che lui certo non conosce). I due giovani riescono poi a far licenziare prima l’autista e infine la domestica, facendo assumere rispettivamente il padre e la madre e riuscendo nell’intento di avere finalmente un lavoro. Il prezzo da pagare? Rinunciare alla verità, scambiare le loro identità con delle personalità fittizie, fingere di non conoscersi tra loro, di far parte di un’ipotetica élite che, seppur non li eleva al rango dei loro padroni, non li pone neanche nell’ultimo gradino della classe sociale.
Parasite: “una commedia senza clown, una tragedia senza cattivi”
Ponendo l’accento sui dettagli, sulle immagini apparentemente banali e scontate ma dannatamente intrise di significato e invitando altresì lo spettatore a cogliere gli infinitesimali aghi che le parole affondano nell’orgoglio umano, Bong Joon-ho ci fa calare gradualmente nella sua “commedia senza clown” prima e nella “tragedia senza cattivi” poi (per usare le sue stesse parole). Perché non ci sarebbe nulla di divertente in Parasite, perché se pensiamo a una famiglia che non possiede nulla e che vive in una casa che è un piccolo inferno ci verrebbe solo da piangere, eppure guardando il film si sorride, ci si sorprende della genialità dei Kim, si gode nel vederli così uniti nonostante la sventura. Ci si rallegra nel vedere come la semplicità dei ricchi venga manipolata da quattro personaggi che per una breve parentesi riescono a convincere anche loro stessi di avercela fatta a scrollarsi di dosso l’odore di povertà, salvo poi inciampare in un dettaglio, in un gesto che rivendica l’umiliazione di una vita intera.
Questa rabbia repressa, questo dislivello sociale che man mano che il minutaggio scorre sembra riportare i Kim al punto di partenza, è il vero fulcro dell’opera, un meccanismo che Bong Joon-ho ci immette nel cervello già dal primo istante e che esaspera su più livelli e per mezzo di diversi schemi. Il più eclatante è certamente l’ambiente in cui la storia si svolge: l’enorme casa dei Park, così profondamente diversa dal bugigattolo in cui vivono i Kim.
Come in Snowpiercer del 2013 anche in Parasite il regista usa prevalentemente un unico spazio per inscenare la lotta di classe. Se nella pellicola fantascientifica tratta dalla graphic novel Le Transperceneige tutto si concentra all’interno di un treno in corsa in cui ogni vagone rappresenta una casta e lo scopo è quello di avanzare verso la locomotiva, nel film vincitore dell’Oscar 2020 riscontriamo un meccanismo analogo. A mutare è certamente il verso dello spostamento: i protagonisti di Snowpiercer avanzano orizzontalmente dall’ultimo al primo vagone, compiendo così la loro rivoluzione e tentando di cambiare il loro destino e quello della loro classe di appartenenza. In Parasite invece le gerarchie sociali ed economiche sono disposte verticalmente, in uno schema lapalissiano che suddivide gli ambienti della lussuosa dimora dei Park dall’inarrivabile ultimo piano in cui i ricchi riposano e a cui la servitù può accedere solo limitatamente fino al bunker confinato nelle viscere del palazzo, che con le scale strette e pendenti opprime di colpo lo spettatore travasandolo dagli ambienti luminosi e moderni a quelli opprimenti e claustrofobici.
Ma tra il primo e l’ultimo piano si ha quasi l’illusione che tutti possano convivere armoniosamente, che i confini si siano cancellati, eppure ci sono, ancora più marcati perché esattamente sotto il loro e il nostro naso.
L’odore dei poveri
Proprio l’olfatto in Parasite acquista un valore determinante. L’odore dei Kim, che viene astutamente captato dal piccolo e ribelle Da-song, è la prima carta che fa perdere l’equilibrio a tutte le altre che vanno a comporre il fragile castello edificato dalla famigliola di “parassiti”. “Loro due hanno lo stesso odore… e anche Jessica”, dice il piccolo. E così mette in crisi il quartetto che, dopo aver ragionato sull’ipotesi di lavare i panni di ogni membro con detersivi differenti, arriva alla triste conclusione che quell’odore deriva dal seminterrato in cui vivono e che per scrollarselo di dosso dovrebbero cambiare casa: un’impresa assai più impraticabile. Una constatazione senza soluzione, recitata con rassegnazione.
E se alle parole di un bambino si può anche non dar peso, sono quelle del signor Park che fanno davvero male, specie se incastrate in una costruzione scenica emblematica che vuole i Kim e i Park esattamente nella stessa stanza: il salotto. I primi sdraiati sul pavimento, nascosti sotto il tavolino, gli altri accomodati sul divano per sorvegliare il figlio minore (in giardino dentro una vera tenda indiana nel bel mezzo di una violenta pioggia). È in questa sequenza che il signor Park fa un’osservazione sull’odore del signor Kim, quell’olezzo che invade il sedile posteriore, che sa di panni sporchi bolliti. Lo stesso al quale la moglie farà caso il giorno dopo, aprendo silenziosamente il finestrino mentre parla al telefono con l’amica.
E mentre i coniugi Park si masturbano a vicenda, Ki-taek e i suoi due figli restano lì, immobili e invisibili, eppure esattamente sotto gli occhi dei loro datori di lavoro, che pur avvertendone il fetore continuano la loro serata; incuranti della loro presenza anche quando i tre stanno sgattaiolando fuori e i Park si svegliano all’improvviso, col signor Kim costretto a rimanere immobile sul pavimento come una statua di sale, un solo colpo d’occhio e verrebbe scoperto.
Sono attimi di tensione e dolore, che ci tengono sulle spine e sottolineano la triste differenza tra le due famiglie, la perenne e leggiadra inconsapevolezza di una borghesia che vive nell’agio senza preoccuparsi di chi non ha davvero nulla.
Nelle immagini successive, mentre i ricchi hanno dovuto rinunciare al loro campeggio, ristorandosi presso le confortanti mura della loro abitazione, i poveri rientrano nella loro casa completamente allagata. L’acqua che fuoriesce dai tombini, che inonda le strade fino a sommergerle, è un ritratto sul quale Bong Joon-ho si sofferma mestamente, inquadrando i piedi del giovane Ki-woo – due palafitte che reggono all’urto della pioggia. Il wc che sputa la sporcizia delle fogne, riversandola nel nido della famigliola, più che squallore trasmette un senso di profonda tristezza, solcando ulteriormente la linea di demarcazione tra ricchi e poveri.
Ma ciò che innesca il colpo di scena finale è l’individuo (il vero parassita) che vive al livello inferiore della casa dei Park mangiando il cibo altrui, smascherato dai Kim nel momento in cui l’ex governante (nonché moglie del fuggiasco) riesce a entrare in casa per dargli da mangiare, supplicando la signora Chung-sook di prendersene cura.
Qui entra in gioco la cattiveria, la lotta tra poveri che non riescono a immedesimarsi neanche in vicende a loro familiari, fingendo di essere dei ricchi e risultando peggiori di loro. Di quella borghesia che vive nell’agio e che, anche se potrebbe essere un possibile villain, di fatto non lo è. Perché in Parasite ognuno è volente o nolente vincolato alla propria natura e non ci sono né veri buoni né veri cattivi, ma solo persone più o meno sfortunate che si ritrovano a fare i conti con la vita, col destino. È la vita la vera carnefice, la vita che forse non meritano e che però si ritrovano a vivere. Quella vita li ha resi “parassiti”, ricchi o poveri, padroni o servi.
Parasite: cosa succede nel finale del film?
Concentrandoci sul terzo atto del film, ciò che inaugura il climax finale è l’esasperazione di Geun-sae. Il giorno dopo la scoperta del bunker e il trambusto dovuto al rientro improvviso dei Park, infatti, la signora Choi Yeon-kyo organizza la festa del compleanno del figlio invitando anche lo staff al suo servizio, quindi i Kim. Mentre Ki-jung/Jessica è incaricata di portare la torta al giovane festeggiato, il signor Kim dovrà vestirsi da indiano insieme a Dong-ik Park. In tutto questo però i quattro “parassiti” pensano solo a come risolvere la questione dei due prigionieri e, nonostante il capofamiglia abbia manifestato al figlio la sua idea circa l’inutilità di avere un piano, padre e figlio sembrano convinti di ciò che occorre fare: eliminare fisicamente l’ex governante e il marito.
Così durante la festa Ki-woo scende nel bunker con la pietra ricevuta in dono dall’amico all’inizio del film, ma troverà il corpo senza vita di Moon-gwang e sarà aggredito da Geun-sae, che lo tramortisce proprio per mezzo della pietra per poi recarsi, armato di coltello, verso il giardino in cui Jessica sta consegnando la torta al figlio dei Park. Con tutta la rabbia che ha in corpo Geun-sae ferisce a morte la ragazza, provocando un attacco epilettico a Da-song, che rivede nell’uomo il fantasma che aveva visto quella sera (si, è esattamente lui!).
La situazione diviene esasperante e tocca le corde della drammaticità quando i Park, presi dal panico per via del malore del figlio, ordinano al loro autista di accompagnarli in ospedale, ma Ki-taek resta giustamente immobile accanto alla figlia, pugnalata a morte.
In questo frangente gli animi si agitano ancora di più, Ki-taek lancia le chiavi dell’auto al signor Park ma egli, infastidito dall’odore del suo autista, non riesce ad avvicinarsi più di tanto. Sul suo volto da borghese si dipinge l’imbarazzo e il disgusto, sul volto del signor Kim irrompono il malessere, la rabbia, la ribellione. Tutta la calma e il senso di sopportazione che l’avevano contraddistinto crollano per un solo attimo, quello fatale, l’attimo in cui perde la ragione e pugnala Park, facendo poi perdere le sue tracce.
Che fine ha fatto il signor Kim?
Quello che avviene dopo lo vediamo perlopiù dalla prospettiva di Ki-woo, che al suo risveglio in ospedale trova la polizia pronta a interrogarlo. Interessante notare come metta in dubbio la professionalità di ogni personaggio, quasi a sospettare che tutti siano dei “parassiti”. E mentre tutto attorno a lui crolla drammaticamente il giovane continua a ridere – evidentemente per via dell’operazione a cui è stato sottoposto – e si accorge della triste realtà solo quando vede i notiziari. Capiamo che la giovane figlia dei Kim è morta, che lui e la madre sono stati processati e adesso vivono nella medesima condizione di prima, ma la scoperta più grande il giovane la fa in una fredda sera d’inverno, recandosi per curiosità nei pressi della villa in cui si è consumata la tragedia, dove adesso vivono dei nuovi inquilini. Lì nota, grazie a un piccolo binocolo, che la luce che dà sulle scale si accende e spegne e capisce che è un messaggio, la lettera del padre che, usando il codice Morse, svela quanto è accaduto subito dopo l’assassinio.
Kim Ki-taek si è rifugiato nel bunker, ha approfittato della casa vuota per seppellire l’ex governante; esce di nascosto per procurarsi del cibo dal frigo, nonostante la nuova governante sia sempre nei paraggi. Le telecamere, i cui fili come abbiamo visto erano stati trinciati dalla domestica, non hanno registrato i suoi movimenti. A quel padre ora resta la speranza che il figlio riceva la sua lettera, mentre il figlio coltiva la speranza di riuscire, un giorno, a mettere da parte soldi a sufficienza per acquistare la casa e dare libertà al genitore. Ci mostra un finale felice che però non esiste, un epilogo in cui al signor Kim non basterà fare altro che salire le scale per andare in giardino e riabbracciare i suoi cari. Ma è chiaro che tutto questo è solo immaginato: poco dopo si ritorna nel seminterrato, nella misera quotidianità di quel che resta dei Kim.
Lo stesso regista ha detto che, facendo un calcolo approssimativo, al giovane occorrerebbe un secolo per mettere da parte la cifra necessaria all’acquisto della casa. Per questo Ki-woo è in lacrime nella scena finale, è consapevole che il suo sogno non si realizzerà mai, che quell’immagine del loro incontro in giardino, sotto il sole, non avverrà.
Che significato ha la pietra in Parasite?
Altro dettaglio da non trascurare in Parasite, in grado di suscitare la curiosità di molti, è la pietra che Min-Hyuk (l’amico universitario di Ki-woo) regala alla famiglia Kim nelle sequenze iniziali della pellicola. Essa assume un significato differente man mano che andiamo avanti nel racconto.
Premettendo che in Corea del Sud la pratica di collezionare rocce è assai comune (iniziò con la dinastia Joseun, dal 1342 al 1897) e che esse hanno un valore economico anche piuttosto elevato, va sottolineato che per chi conosce la cultura coreana pietre del genere possono assumere molteplici significati, al punto che gli stessi membri del cast hanno dato interpretazioni differenti.
Nel film di Bong Joon-ho la pietra inizialmente non viene molto apprezzata, come se i Kim non riponessero molta fiducia sul fatto che sia in grado di portare prosperità, eppure poco dopo la loro condizione muta positivamente.
Tuttavia l’energia positiva della pietra muterà nel tempo arrivando a essere usata come arma, come un mezzo per mantenere intatto il privilegio acquisito con l’inganno. Infine, nella scena conclusiva, il giovane Ki-woo deposita la pietra nel fiume, come a volersene sbarazzare. Un’immagine che lascia molti punti interrogativi, ma che a nostro parere indica un senso di chiusura di quella breve parentesi felice. In un certo senso è come se la pietra avesse fatto piovere dal nulla il benessere dei Kim per poi sottrarglielo. Se il giovane non fosse andato nel bunker l’assassino di sua sorella non sarebbe emerso e la finzione avrebbe proseguito ancora un po’, eppure la sua ingordigia, il suo voler fare del male tramite l’oggetto che gli aveva portato del bene gli si è ritorto contro.
Forse quella pietra sta lì a identificare tutti i doni che si ricevono per caso, senza particolare merito. Sta lì depositata nel letto del fiume per ricordarci che nulla si conquista per pura fortuna: una poesia silenziosa e tremenda, un canto privo di speranza.
Chi sono i parassiti in Parasite?
Concludendo, vi chiederete: chi sono i veri parassiti? I Kim che vivono alle spalle dei Park? O forse l’ex governante e il marito? O forse i Park stessi, rappresentanti di una piccola percentuale di popolazione fortunata che vive con indifferenza nel benessere, incurante e disgustata dalla povertà?
La risposta è che la vera parassita di Parasite è la speranza, quel sentimento che porta i personaggi a credere che domani andrà meglio, che ci sia una soluzione; che li porta a ingannarsi volontariamente, ad aggrapparsi a qualcosa di irrealizzabile, solo per approdare al giorno dopo. Così la finzione è l’unico baluardo di felicità non autentica, l’unica speranza di vivere una vita migliore o, meglio, di una parentesi di esistenza migliore, in cui godersi il benessere, fantasticando su un futuro che non sarà mai loro.