Perché Shining di Stanley Kubrick è un capolavoro? La risposta è negli archetipi
Il film tratto dal libro di Stephen King rispetta delle regole di narrazione ben precise che lo rendono un vero e intramontabile capolavoro!
Quando un regista come Stanley Kubrick adatta per il grande schermo un romanzo concepito da un autore dello stampo di Stephen King il risultato è un’opera cinematografica destinata a essere e a rimanere al centro di studi e dibattiti per diversi anni, addirittura decenni. A dimostrarlo c’è Shining, che in effetti è uno dei più eloquenti esempi di come la poetica autoriale di un artista finisca col costituire le fondamenta, la struttura ossea di un’opera ancor prima che un’altra poetica, questa del tutto differente dalla prima, giunga a cambiarne sfumature, ad accorciarne sottotrame e svilupparne delle altre, ad aprire nuove possibili vie, chiavi di lettura alternative alla principale, a modellare personaggi inediti partendo dal calco di quelli preesistenti. Lo Shining di Stanley Kubrick è l’unica opera che ha saputo eclissare la ghost story di Stephen King (e non necessariamente perché migliore). Ci è riuscita, e quando parliamo di Shining è piuttosto difficile associare il significante al significato che aveva prima del 1980, quando Shining era soltanto uno dei romanzi più apprezzabili e più emblematici dello stile dello scrittore del Maine, che dal canto suo non ha mai saputo trovare il modo di amare l’interpretazione che della sua storia di spettri ne ha fatto Kubrick.
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Shining: cosa accomuna le due opere?
Potremmo trovare persino condivisibili le ragioni di questo distacco, che in alcune recentissime dichiarazioni è tornato a far parlare di Stephen King: “preferisco la serie perché il protagonista è riuscito a cogliere meglio lo spirito di Jack Torrance, che è arrivato all’Overlook Hotel in modo sereno ed è rimasto vittima di una progressiva follia. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare: avrebbe dovuto esprimere amore per la sua famiglia, che l’hotel travolge gradualmente insieme al suo senso morale.”
Eppure i due Shining rivelano meno differenze, fra loro, dal romanzo d’origine di quanto non possa sembrare a seguito di un’analisi superficiale. E di questo va dato merito proprio a Stephen King e all’utilizzo che lo scrittore fa degli archetipi (del genere horror, ma non solo), che sussistono anche una volta affidata la narrazione a uno sguardo filmico distantissimo dal suo.
Per archetipo s’intende, in narratologia, un modello originario ed è un concetto chiave nella stesura di un testo narrativo o di una sceneggiatura, perché l’archetipo è il narratore, il portatore del messaggio che un autore vuole veicolare. Sebbene lo Shining cinematografico possa apparire come, più che una rilettura, una vera e propria sperimentazione con l’intento di spostare il baricentro dell’opera dagli archetipi alle atmosfere, in realtà un’analisi accurata ci porta a comprendere che, persino sotto le mentite spoglie di opera “arty” e visionaria che in più punti differisce dall’originale, lo Shining di Kubrick pullula degli stessi archetipi primordiali che sorreggono la struttura del romanzo di partenza.
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Il ruolo degli archetipi nel cinema
Jung – di cui Kubrick è un grande conoscitore – sostenne che le storie macabre e dell’orrore sono collegate ad “archetipi primordiali sepolti nel profondo del nostro subconscio collettivo – dove immagini come la madre e l’ombra giocano un ruolo essenziale”. Persino dando un’occhiata fugace al plot di Shining queste due componenti sono immediatamente visibili: la madre, interpretata dall’indimenticabile Shelley Duvall, è una madre che rischia di venire risucchiata dalla follia crescente di Jack Torrance insieme a suo figlio, il piccolo Danny Torrance, ma che alla fine riesce a fuggire. Pur preservandola sempre come simbolo d’integrità e di protezione, in Shining – e in molte delle opere di Stephen King – la madre assume contorni differenti da quelli che spesso appartengono alle figure materne deviate che vanno a costituire la matrice orrorifica di tante altre opere fondanti del genere. In realtà l’archetipo della madre è in Shining presente sotto molteplici figure, ma andando ad analizzare quella rappresentata dalla madre effettiva, Wendy, è chiaro che sia collegata al percorso di Danny.
Proprio Danny, e non Wendy, compie un percorso alla volta della scoperta-creazione del Sé quando scopre di dover sconfiggere il Male (il “drago”) per salvare la madre (“la fanciulla”). Danny (l’Eroe) prende consapevolezza del suo obbligo morale verso se stesso e della sua “missione” per crescere e affermarsi come individuo.
Le ombre di cui parla Jung, infine, sono la costante che tiene ancora fortemente legate fra loro la storia vista dalla prospettiva di King e quella scritta dal punto di vista di Kubrick. L’Overlook Hotel è a tutti gli effetti il castello della storia e, come in ogni castello di fantasmi, è infestato da spettri materici e non, da ombre metaforiche e reali. La poetica di Stephen King è interamente, o quasi, fondata sulla correlazione fra proiezione della mente e realtà, vale a dire fra la dimensione psicologica interiore e quella terrificante appartenente alla realtà esterna, che finisce con il rispecchiare proprio quelle immagini personali e gli incubi individuali. Una correlazione che si traduce, in un discorso più ampio ed extradiegetico che abbracci anche il linguaggio cinematografico, nell’equilibrio ideale fra autorialità e genere: gli spettri che pullulano il castello maledetto, archetipo horror per eccellenza, sono la “personificazione” di paure ataviche individuali (e qui il discorso autoriale che prende in considerazione la dimensione psicologica dei traumi dei personaggi) ma indecifrabili se non si prende in considerazione soprattutto il passato che di quel luogo viene raccontato (nel romanzo più volte, mentre nel film viene soltanto accennato): e cioè, in un discorso puramente affiliato al genere puro, che l’Overlook è una struttura che quasi pare destinata a essere, sin dalla sua costruzione, maledetta – perché pone le sue radici su un cimitero indiano – e che di fatto è stata poi teatro di numerosissimi episodi di violenza e scena di omicidi nel corso dei suoi anni.
Shining: una storia di ombre e di castelli infestati
Sfogliando le pagine dell’opera di King è evidente che l’opera di Kubrick sia interconnessa con quella dello scrittore, perché tanti simboli di cui si è cercato di spiegare l’esistenza e lo scopo attraverso teorie complesse, alcune bizzarre, e comunque tutte piuttosto svincolate dal film in sé e dai suoi intenti. Molte delle figure spettrali che fanno la loro apparizione nella ball room, nel film di Kubrick – per esempio la donna che passa accanto a Jack con un’evidente macchia di sangue stampata sul suo abito elegante – e altre immagini indelebili, come l’uomo travestito da orso e accovacciato dinanzi a un altro uomo in quello che sembra essere un rapporto intimo (e che appaiono durante la forsennata fuga di Wendy), vengono introdotte, contestualizzate e spiegate proprio nel romanzo di King.
Il passato dell’albergo è esso stesso protagonista della storia di King, ed è un concetto che viene da Kubrick riproposto mediante la metaforica (e atmosferica) compresenza di piani temporali a cui si fa continuamente allusione, soprattutto nei dialoghi con Grady e nel controverso finale in cui Jack Torrance appare in una foto d’epoca appesa da sempre su un muro dell’albergo.
Il doppio e il labirinto
Per ombre s’intende anche il doppio, un concetto archetipico ricorrente nel film di Kubrick perché preesistente proprio nella struttura del romanzo e che possiamo ritrovare nella lotta fra padre e bambino, l’uno il doppio dell’altro. Molto importante in tal senso è l’introduzione di un simbolo profondamente connesso a quello del doppio, il labirinto, assente invece nell’opera di King (che aveva prediletto, in scene estremamente suggestive e inquietanti, delle siepi che si animano all’improvviso). Proprio nel labirinto dei doppi, padre e figlio si sfidano in un meccanismo di fuga e inseguimento che termina con la sconfitta definitiva del padre, e con il doppio del figlio che si afferma sul padre. Il concetto di doppio è basilare, continuamente simboleggiato dal tipo di regia simmetrica e dalle immagini speculari di cui Kubrick si serve, e si presenta anche nella comunicazione che si stabilisce fra Danny e la sua voce interiore, “l’amico” Tony, che si tenta di spiegare con la razionalità della psicologia, tentativo che fallisce però dinanzi all’evidenza dei poteri di Danny e delle sue capacità di comunicare mentalmente con Dick Hallorann (doppio di Danny, anch’egli dotato di “luccicanza”).
La stanza del rimosso
Altri archetipi fondamentali in Shining sono la stanza proibita (la Room 237, che era la 217 nel romanzo di King), quasi la traduzione di un subconscio in cui si desidera “entrare”. Quella della stanza nascosta, addirittura proibita, è un’immagine ricorrente e fondante del genere horror (basti pensare al “profondo rosso” dell’omonimo film di Dario Argento; altro non è che il subconscio, il trauma rimosso), e qui è chiaramente la stanza di Jack, in cui a Jack è “concesso” entrare, ed è dove Jack farà la conoscenza della misteriosa e terrificante donna nella vasca. Quando Danny entra nella stanza ci viene proposta la metafora di una scoperta, quella della vera natura di suo padre, a cui l’Overlook sta dando possibilità di esprimere l’Es (la stanza più arcaica della nostra mente, l’inconscio) al posto dell’Io (la stanza della mente che contiene la maggior parte degli elementi consci), tentandolo con la sua influenza negativa. Non è Wendy a entrare nella stanza 237/217, bensì Danny, che ha sulla sua pelle subito il trauma rimosso dalla famiglia e in primis dai buoni propositi di Jack: è stato proprio Danny, infatti, la vittima fisica delle aggressioni di Jack a seguito dei suoi problemi di alcolismo e il “male” custodito nella 237/217, a cui accedono padre e figlio, altro non è che il rimosso che torna a galla, perché irrisolto.
Shining rimane, dunque, una storia che tratta della psiche umana (i corridoi dell’albergo sono poi i “corridoi della mente”, per riassumere). Una storia dall’altissimo coefficiente archetipico, anche quando a riproporla da una diversa prospettiva è Stanley Kubrick, dotato di una visione estremamente differente da quella che ha partorito Stephen King.