Persuasione: salviamo Jane Austen dal turismo sessuale
Perché l’ultimo Persuasione firmato Netflix è il peggiore adattamento possibile di un grande classico.
C’è tutto di sbagliato in Persuasione, l’adattamento Netflix dell’ultimo romanzo di Jane Austen. La storia è nota: Anne Elliot, figlia poco appariscente di un aristocratico altezzoso e compreso di sé, è stata persuasa – da qui il titolo assegnato postumo, aderente al plot, ma non alla volontà dell’autrice – a lasciare, perché di classe sociale inferiore, l’uomo che pure amava intensamente, un ufficiale di marina di nome Frederick Wentworth. Otto anni dopo, quest’ultimo, da Anne mai dimenticato, ritorna dalle guerre napoleoniche e, forte di un prestigio e di una ricchezza nuovi, viene accolto con maggiore benevolenza in società.
Il secondo tempo concesso al legame tra i due approfondisce il desiderio iniziale e lo prolunga in un sentimento maturo: è possibile non solo che un amore resista al tempo e ai suoi annebbiamenti, ma anche che ciò rappresenti la prova del suo valore e non, a differenza di quanto oggi si tenderebbe a pensare, nella nostra compulsione a ridimensionare e desacralizzare, il segno di un attaccamento morboso e pavido a un passato idealizzato.
Il più romantico dei romanzi austeniani appiattito da un’ironia facilona
Appare perciò singolare il ribaltamento attuato dagli autori del film Netflix che, per la più profonda e romantica – in senso storico e nella più generale accezione di apertura alle possibilità dell’esistenza di eccedere confini, continenze e contingenze di superficie – delle opere della scrittrice britannica, scelgono di adottare una modulazione sciommiottescamente ironica, una sbandierata aridità del tono, tra cinismo e disincanto più di maniera che autentici: una posa d’epoca, della nostra, però, non di quella in cui la protagonista Anne Elliot vive, agisce, ama. Non che l’espansione, verticale e orizzontale, di Persuasione resti non colta, ma sembra manchi l’intenzione di valorizzarla, di leggere il testo di partenza nella sua potenza nucleare, nel suo carattere più radicalmente universale
Persuasione, tra Fleabag e Bridgerton. Ma il fallimento non dipende da scopiazzature o frangette
In molti hanno notato l’ispirazione ‘fleabagana’ – nella rottura della quarta parte; nella ritirata sarcastica, da parte della protagonista, di fronte all’emergenza dei sentimenti – e la continuazione del discorso aperto da Bridgerton, che aggiusta il passato alla luce dei nuovi intendimenti morali e delle esigenze di rappresentazione che avvertiamo oggi. Ma il fallimento di questo adattamento, claudicante nel ritmo e stilisticamente instabile, non dipende dai debiti nei confronti di altre produzioni o da quanto il film somigli ad altri show, interni o esterni a Netflix. L’effetto di già visto è il minore dei problemi.
Non dipende, come sostengono alcuni, neppure dalla frangetta troppo ‘francese’ – Fleabag, ancora tu? – o dai costumi dal taglio contemporaneo di Dakota Johnson, l’attrice scelta per interpretare Anne, accusata, tra l’altro, di essere troppo bella per assumersi il ruolo di un’eroina austeniana, figuta priva, per così dire di default, di attrattive conformemente riconosciute.
Dakota Johnson è sì bellissima, ma, a rigore, le si farebbe un torto a riconoscerle la grazia del solo aspetto: possiede e spesso s’illumina di una luce spirituale, negli occhi turchesi e guizzanti; e, nei lineamenti appuntiti, animati da uno charme garbato, rivela un nerbo vagamente intello-chic che la sottrae al pericolo di una sensualità troppo ordinaria e troppo asfitticamente rispondente alle richieste di omologazione estetica.
Non è al suo eccesso di bellezza, o allo spettro di una qualche sua canonicità, che va fatto puntiglio, ma, casomai, al modo in cui di continuo sogghigna mentre abbassa e stringe gli occhi in atteggiamento scrutatore e giudicante: davvero Anne Elliot, la più sensibile delle eroine austeniane, merita questo? Davvero è un personaggio da restituire così: ridicolo, per primo, nel suo impulso infantilistico a ridere – di sottecchi – degli altri?
Persuasione non funziona, ed è questione programmatica: giusto autorizzarsi a una lettura così sfrontata – e superficiale – di un grande classico?
La questione fondamentale è, però, a ben guardare, soprattutto di metodo. Bisognerebbe chiedersi a monte, prima di procedere alla riscrittura, se, quando si adatta un classico, sia giusto autorizzarsi ad adottare nei suoi confronti un atteggiamento informale, di schietta confidenza, e, in caso di risposta affermativa, se la linea della spavalderia estrema nell’attualizzazione sia quella che paga di più o se non sia invece meglio conservare come intangibile – sacra! – quella distanza che il classico evoca, quel senso di remoto e altero che ce lo rende sì poco fruibile, ma anche, nel contempo, stimolante, stratificato, al di là delle mode e pertanto eternamente vivo.
Bisognerebbe infine e soprattutto chiedersi se, come fa impunemente il Persuasione di Netflix, suggerire che Lady Russell compensi, beata, la mancanza di un compagno con la pratica del turismo sessuale risponda a un’esigenza di attualizzazione e non invece a un più banale prurito, alla tentazione di una ben più comoda volgarità.