Resident Evil: perché nessun adattamento è mai davvero riuscito?
È così difficile fare un film di Resident Evil che di Resident Evil abbia qualcosa più del nome? Che ci presenti le ambientazioni tipiche e non si concentri sulla replica di personaggi che poi replica non sono? E perché Anderson tutto sommato ha fatto un lavoro migliore col suo primo capitolo rispetto all’ultimo, deludente, Welcome To Racoon City?
Villa Spencer e Racoon City sono sempre stati palcosceni iconici per le storie di sopravvivenza dei protagonisti, che è il punto cardine del concetto di Resident Evil. Resistere agli orrori: un poliziotto alle prime armi che sopravvive, un membro della STARS così cocciuto da resistere, un dottore così disperato da lasciarsi andare alle proprie mostruose creazioni. Per questo il primo film di Resident Evil (ed in parte il secondo, Resident Evil: Apocalypse) funzionavano: c’era una squadra coesa con tante personalità contraddistinte, anche se solo superficialmente; c’era una protagonista interessante che sopravviveva a pericoli costanti; c’erano i sordidi affari dell’Umbrella Corporation; c’era perfino la villa, che serviva per coprire i giochi di potere della multifarmaceutica – quasi in parallelo coi videogiochi. E tutto questo con delle facce sconosciute, con una buona sceneggiatura. Senza partire dal presupposto che per avere un buon prodotto bisogna per forza prestarsi al fanservice sfrenato – che poi fanservice non è, dato che non è fatto bene.
Resident Evil: sarebbe bastato davvero poco per creare un film di successo
Noi abbiamo ormai perso le speranze sulle nuove serie di Resident Evil, per tutte le ragioni sopracitate ma anche per altre. Capcom ha deputato il mondo dei film di Resident Evil al mero marketing invece di dargli una vera opportunità di sfruttare il suo potenziale ed una dignità. Forse alla Capcom non hanno ancora capito che non servono grandi cose per accontentare i fan dei prodotti transmediali – basta guardare il trailer della nuova serie di The Sandman per capirlo. Sarebbero banalmente bastati i cinque poveri sfortunati di Resident Evil: Outbreak al bar durante l’invasione della città, intenti a scappare per la vita; se non loro, altri cinque a caso sarebbero andati bene, abitanti qualunque presi nel mezzo di un disastro comune, costretti a collaborare nonostante i caratteri diversi, le visioni diverse. Oppure poche situazioni e richiami ma con protagonista una delle location più suggestive dell’intera saga, Villa Spencer, con l’intento di ricreare un contesto in cui sia l’ambiente il protagonista, un’edificio-trappola usato nell’ombra dall’Umbrella per i suoi esperimenti, assieme ai suoi misteriosi e lugubri laboratori sotterranei abbandonati. Se pensate che durante i primi giochi, dove non c’era molto focus sui protagonisti, a qualcuno importasse qualcosa dei personaggi vi sbagliate: non erano ancora abbastanza iconici per avere un’importanza; più semplicemente servivano come strumento per veicolare quell’esatta esperienza ludica. La stessa cosa si doveva fare anche coi film, un esperimento ben riuscito solo ad Anderson col primo capitolo della sua saga.
Resident Evil: da Welcome to Racoon City fino alla serie Netflix
Invece, a partire da Welcome to Racoon City fino ad arrivare alla serie Netflix, la sensazione è che ci sia una ricerca verso quello che attira il pubblico generalista, più che i fan del franchise. Parlando di Welcome To Racoon City, le parole del regista che lo vogliono ispirato ai primi giochi stridono davanti alla realizzazione e alla trama. Mettere Chris, Jill, Claire e Leon insieme in un unico calderone (tra l’altro cambiandone i tratti caratteriali e persino fisici) preannuncia un pasticcio di proporzioni bibliche che ovviamente non rende giustizia a nessuno dei personaggi. Personaggi da subito stravolti, a partire dall’intimità tra Jill e Chris, per arrivare ad un Leon alcoolista. Volete il politically correct? Volete Jill interpretata da una bellissima e talentuosa attrice di colore, un Wesker moro ed un Leon interpretato dall’equivalente di Luis di Resident Evil 4? Va bene. Mi va bene, lo giuro. La cosa mi dà fastidio, ma aldilà dell’aspetto non la ritengo estremamente importante, basta rispettare gli archetipi dei personaggi. Ma qua non si parla del mero aspetto degli attori. Si parla dei loro temi portanti, delle caratteristiche che li hanno resi iconici, ricordati, amati.
Il rapporto tra Chris e Jill e quel “disastro” della serie Netflix
In Welcome To Racoon City la romance tra Chris e Jill è sbattuta lì davanti allo spettatore, come un pesce in faccia. Invece, nella saga videoludica, il rapporto tra Chris e Jill è molto diverso: sebbene siano partner dal sesso opposto legati da un incredibile affetto, per tutta la saga questo affetto viene espresso con stima, fiducia, amicizia, senza voler forzare la solita romance. E Leon? Era davvero, davvero necessario trasfigurare un personaggio costruito per essere ingenuo, retto, entusiasta, al suo primo giorno di lavoro? Perché renderlo un alcolista, quando c’era così tanto del suo modello da “bravo ragazzo” da esplorare?
E parlando della serie Neflix? Vediamo una rincorsa al trend, vediamo tirare in ballo il nome di Wesker e mi vengono i brividi, specie in un contesto che sembra tirato per i capelli, e che tira in ballo due giovani fratelli Wesker mai menzionati prima. La serie è inoltre scritta da Andrew Dabb, autore di Supernatural, e per quanto questo da una parte mi rincuori, dall’altra urla da tutti i pori “prodotto teen”. Questa nuova trovata scongiurerà un nuovo buco nell’acqua? Io non ne sarei molto sicura.