Rita Hayworth: icona controversa e atomica
Eccola che appare. La puoi vedere dietro una porta che si apre o una tenda che si ritrae. Cammina con lento intercedere e si ferma davanti ad un essere ignoto. Si spoglia di fronte a lui. Quello che l’inconscio non riesce a sopportare non è il suo corpo che si incrina, le increspature della pelle dense e succubi delle sue debolezze. La sua mente,i suoi occhi non vedono il suo corpo. Quelle sono le gambe di un’estraneo, le mani di uno sconosciuto. La testa a volte sceglie l’oblio. La nebbia.
Rita Hayworth ha lasciato perpetuare per anni la sua esplosione di sessualità, strabordante e trasgressiva, si è spinta al limite e poi giù di li, all’imprevedibile. Forse una delle prime beau et damnés che si ricordi: sicuramente non rispettava i canoni del tempo che atrofizzavano la bellezza fino a congelarla.
Lei, una tempesta di ruggine, cresciuta a pane e flamenco, ebbe degli esordi controversi legati proprio al suo corpo. Per la Warner era troppo in carne, i capelli non erano adatti. Ogni sua esperienza recitativa era assai limitante e non riusciva a concludere un contratto che durasse. Finchè i suoi passi non si incrociarono con Harry Cohn, presidente e produttore della Columbia, che ebbe a che fare con una donna totalmente diversa. I suoi capelli presero vita e diventarono lingue vermiglie che ondeggiavano sul suo corpo snello e slanciato: era nuova, diversa, pura. Quella metamorfosi giovò grandemente alla sua carriera.
Ecco che nel 1939 moriva Carmen Cansino e nasceva Rita Hayworth
L’America i suoi miti, le sue dive le desiderava per davvero, il popolo si inginocchiava davanti a quell’ imago dei, per quanto falsa e reticente si rivelasse: potevano mancare i quattrini per sostenere le fabbriche, ma non si sarebbero persi nemmeno un flash o una copertina della loro cleopatra lussuriosa.
Eppure la Hayworth ebbe una carriera singolare, tutti i suoi film hanno una connessione, un filo logico, una stesura infinita, una pellicola proiettata sulla sua pelle che ne costituiva un mosaico rimasto incompiuto.
Era abile, sinuosa, danzava anche da ferma, con gli occhi, riuscì a conquistarsi un grande partner sulla pista da ballo e davanti la cinepresa: recitò con Fred Astaire ne L’inarrivabile felicità (1941) e in Non sei mai stata così bella (1942).
Il suo destino interpretativo era già molto definito, quasi provvidenziale. Le donne sembrano sempre una cosa e poi si trasformano in un’altra. I suoi risvolti filmici riguardavano donne sì invaghite della loro stessa bramosia, insoddisfatte, spudorate e disilluse. Però le sue donne avevano una marcia in più, riuscivano ad assorbire la fantasia e il caldo sapore della proibizione senza mai interporsi troppo sul dramma, ma liete di potersi far cullare da un’imprevisto comico o grottesco. Sta qui l’enorme abisso che la divide da tutte le altre femme fatale: possedeva una grande ironia e non temeva di farla trapelare.
Fu Baudelaire a dipianare la comicità in due volti, il comico significativo e il comico assoluto. il primo incide molto sui vizi, sulle imprudenze. il secondo è alienante e mostra il surrealismo che pervade la comicità, che si innalza oltre la natura. La Hayworth si concesse atmosfere di tipo significativo poichè i suoi personaggi sanno prendersi in giro, proprio perchè la comicità ha una forza d’urto che nasce dalla superiorità che un uomo imprime su di un altro.
La sua tensione euforica che risplendeva nei capelli come il sale le conferì un bienno ’46-’47 particolare: riuscì a sentire l’odore dell’olimpo e a protendere al volgo subito dopo. Come Sisifo, che spinse un masso dalla base alla cima di un monte e dovette eternamente assistere alla sua caduta e quindi ripetere la salita.
Quegli anni furono decisivi poichè interpretò due ruoli antitetici ma determinanti: Gilda (1946) e La signora di Shanghai (1947). Entrambi subiscono la presenza di un narratore, una voce che accompagna lo sguardo dello spettatore, destrutturando la fluidità, aggiungendo uno strumento al complesso di suoni che sgretola l’attenzione visiva, quasi un rigurgito manzoniano mal riposto. E se da un lato hanno delle analogie, i punti in cui sanno differire sono grandiosi. In primo luogo Gilda ha un sorriso sghembo, beffardo,una presenza deleteria se non la si può conquistare, con un’anima celata che conosce il rimorso. Ha del buono che si insidia tra le gelosie. La sua è un’apparenza da dea ingannatrice, poichè i suoi amanti, le sue conquiste non sono reali: lei sceglie di mostrarsi in compagnia di un uomo diverso ogni giorno perchè è quello che tutti si aspetterebbero da lei.
Dopotutto una donna bellissima a cosa può mai auspicare nella sua vita se non ad un uomo ricco che plachi i suoi dispendiosi capricci? Lei riesce a sfatare questo mito infausto, che molte attrici hanno scelto di perseguire nelle loro carriere. In La signora di Shanghai ha un volto nuovo e l’approccio alla narrazione cambia poichè il suo personaggio, Elsa, risente di una libertà che si consuma in modo fulminante, mescolando umori alti e bassi. In questa pellicola si percepisce la fine, il senso del tempo, la morte è in scena. Lei non prova amore ma più una rassegnazione sentimentale,è molto più capace di gesti infantili a volte sgradevoli e incoerenti.
C’è sempre una donna che riesce ad ingannarti, tanto da impedirti di portare il saluto al sol levante. Gilda è irrazionale ma serafica. Elsa è una calcolatrice adultera.
Tutt’altro sapore e ombre ha in Pal Joey (1957), recitando affianco a Kim Novak e Frank Sinatra che dal canto suo porta a casa una recitazione d’impatto che non vuole farsi ricordare, appartenere alla memoria o a qualche recesso dell’anima. Sia donna Rita che Sinatra rimangono in superficie, senza entrare nei loro abissi, non riescono a guardarsi o a comprendersi, scivolano sulle loro vite oltraggiando le scelte dell’uno e dell’altro, alternando il tempo delle decisioni contraddittorie al tempo interiore che ha una strada,ed è sempre quella meno percorsa.
Non lo amo ma è una ragione per distruggerlo. La cosa interessante è che ritorna sempre un’idea della donna che tutto ciò che di più lontano possa esistere dallo stilnovismo. La sua vita fu una tempesta matrimoniale e proprio perchè scelse più volte di unirsi con un uomo arrivò a dichiarare: “quel che mi sorprende nella vita non sono i matrimoni che falliscono, ma i matrimoni che durano”. Un boudoir disseminato da anti cupido e abbandono, come la goccia che lentamente scava la pietra, l’anello si consuma con l’uso.
E quella erosione scavò un pò troppo forse, intaccandone l’anima, i ricordi, non avrebbe dovuto permetterlo. Ma non fu lei a scegliere il buio, anzi, mi piace immaginare che spogliandosi, mimando il gesto del guanto o riflettendosi in mille specchi d’angolazione riuscisse a ritrovare la luce e a consentire che le gambe di quella sconosciuta Gilda e le mani di quell’estranea Elsa tornassero sovrane nella sua vita, nel profondo di una mente che ha spento i ricordi, ma che non dimentica a che altezza trovare sempre il proprio interruttore.