Room: la storia vera da cui è tratto il film con Brie Larson
Room prende spunto dall'orribile caso di cronaca nera, noto come "il caso Fritzl" (Austria, 2008), che vede come protagonista una giovane ragazza, Elisabeth, tenuta segregata dal padre, per moltissimi anni, in un bunker.
Una piccola stanza che diventa tutto il proprio mondo. Una mamma e un bambino, uniti più che mai. Joy/Brie Larson – strepitosa; questo infatti è il ruolo che le è valso l’Oscar nel 2016 – e Jack/Jacob Tremblay, l’uno la vita dell’altra, l’una la protesi dell’altro – in Room il bimbo impara tutto ciò che sa solo dalla madre.
Sta tutto lì, in quelle quattro mura il mondo di Jack – frutto degli stupri che la giovane ha subito e subisce da quando è stata rapita – che non ha conosciuto nient’altro; ha cinque anni e per lui esistono solo Porta, Stanza, Cosmo, per lui non c’è nient’altro. Per Jack, quello, il dentro, non ha bisogno di un fuori, di un dietro per “essere”, il fuori lo conosce Joy, chiamata Ma’, invece, una ragazza che da sette anni vive imprigionata, dopo essere stata rapita da “Old Nick”, interpretato da Sean Bridgers, così chiamano il loro carceriere. Questo racconta Room (2015) lo struggente e crudele film di Lenny Abrahmson (Frank), film che non si tira mai indietro ed entra in maniera potente tra le pieghe del rapporto tra una mamma e un figlio, che si fa strada prepotentemente tra le loro emozioni, tra la normalità – incredibilmente per Jack quella è la sua vera vita – e l’anormalità – Joy è arrabbiata, stanca, disillusa, non sopporta più questa situazione. Ciò che rende ancor più “insostenibile” questo bellissimo e poetico film è il fatto che è tratto dal libro di Emma Donoghue – che scrive anche soggetto e sceneggiatura della pellicola -, Stanza, letto, armadio, specchio che narra una storia realmente accaduta.
Room: un film che parte da una drammatica storia vera
Abrahmson costruisce Room in due atti: il primo è il racconto della vita di Joy e Jack in Stanza, il secondo è quello della vita fuori, dopo che il bambino riesce a fuggire e a liberare entrambi. Il cineasta realizza il film tratto dal libro che prende ispirazione dall’orribile caso di cronaca nera, noto come “il caso Fritzl” (Austria, 2008), che vede come protagonista una giovane ragazza, Elisabeth, tenuta segregata dal padre, per moltissimi anni, in un bunker. Proprio questo intenso bagaglio di vita vera che riverbera contro ogni parete della “prigione” fa sentire allo spettatore ancora di più lo stato d’ansia e di precarietà con cui convive Joy. La donna è capace, spinta e animata dall’amore materno, di far sentire suo figlio protetto e al sicuro, anche perché il piccolo non sa che esistono le foglie, gli alberi, le montagne – Jack sarà scettico nel momento in cui la madre proverà a spiegargli cosa c’è dall’altra parte. Quella Stanza è scura, buia, sporca, eppure è casa per Jack – dopo che riescono a fuggire e possono definirsi liberi il bimbo chiede quando possono tornare nella loro prigione -, lì gioca, immagina, impara, legge Alice nel paese delle meraviglie – storia che torna più e più volte lungo il film -, non si sente un “diverso”, un prigioniero, una vittima.
Come nel libro anche nel film lo sguardo che “conduce” i giochi è quello di Jack; lo spettatore guarda spesse volte attraverso i suoi occhi, sente le sue parole e capisce cosa provi, come viva. Quella prima parte che dovrebbe essere l’Inferno, la piccola stanza, scelta e costruita centimetro per centimetro dallo scenografo, toglierebbe il respiro a chiunque, c’è un’unica finestra, il lucernario da cui Jack vede Cosmo, che giustifica la definizione di Stanza. Non è una prigione però per il protagonista perché è la norma, gli unici attimi veramente spaventosi che rompono la sua routine fatta di ginnastica, sogni, Dory l’esploratrice, sono le notti quando “Old Nick” – termine inglese per indicare il diavolo – o il “Vecchio Nick” viene a fare loro visita. Anche nella storia vera a cui il film si rifà, Fritzl si reca nel luogo degli orrori – la giovane austriaca racconta quei giorni come fatti di luci spente, stupri, muffa, umidità – per abusare sessualmente della figlia che metterà al mondo sette figli. Ovviamente la storia di Fritzl è diversa (si viene a scoprire che Elisabeth non è scomparsa dopo il ricovero di una delle figlie nate dall’incesto) e molto più complessa (la donna ammetterà solo in seguito di essere stata segregata e abusata dal padre per 24 anni), con risvolti così drammatici da non trovare le parole per descriverli.
Room: un dolore che è anche una carezza
Room poi ad un certo punto cambia rotta e diventa forse più sopportabile per chi guarda, quando Joy decide che non possono più andare avanti così e cerca un modo per scappare. Sarà Jack a tentare la fuga, fingeranno la sua morte in modo che il bimbo possa uscire e chiedere aiuto – scelta interessante, fingere la perdita della vita per ricominciare a vivere. In questa sorta di intermezzo in cui Jack fa il cavallo di Troia la sensazione, quando si vede il piccolo sul camion di “Old Nick”, è quella di vedere un astronauta che entra nella camera di decompressione per tornare sulla terra, con gli altri esseri umani. Tanto cielo e nuvole per Jack a cui in qualche modo, anche se parzialmente era abituato, e poi tanta paura; solo al terzo stop infatti si lancia dal mezzo facendosi vedere dal carceriere. Un solo pensiero, tenere tra le mani il biglietto scritto dalla madre da dare al primo passante. Jack ce la fa, riesce nella sua impresa.
Jack salva se stesso e Ma’, si comporta da eroe e nonostante l’angoscia, nonostante tutto agisce; anche qui, come per Joy, è l’amore ad avere la meglio. Room infatti è un film crudele, spietato, angosciante e angoscioso, claustrofobico quasi ma è anche un film sull’amore. Sull’amore di una madre per suo figlio e su quello di un bambino per la sua mamma – un sentimento che fa sentire più forti e coraggiosi, che fa fare ciò che non si sarebbe mai pensato di poter fare (la fuga, il messaggio consegnato, il taglio di capelli).
Room: il racconto di una rieducazione alla vita
Il film nel secondo atto diventa forse ancora più complesso, quando Jack e Joy devono ritornare ad un’esistenza normale. Sarà difficile guardare il mondo, gli occhi devono abituarsi al nuovo e all’inesplorato. I colori, la luce, il sole, gli altri entrano prepotentemente nella loro vita ma i due ritrovano anche la loro stessa immagine; infatti uno dei momenti più toccanti è quando si vedono allo specchio – oggetto di tutti i giorni che però non era presente in Stanza. Lo specchio permette al bambino di riconoscersi e creare la sua identità; è questo ciò che inizia a fare Jack ma non è facile.
I due vengono portati a casa della madre di Joy (che convive con un nuovo compagno) che Jack non ha mai conosciuto, in una casa grande, colorata, piena di luce, in cui non ci sono regole, porte sprangate ma giochi – non aveva giochi ma solo la fantasia per creare amici immaginari – e gelati – la spesa era risicata nella loro prigione -, amore e tenerezza.
In un primo momento però il bimbo è come un animale selvatico rannicchiato in un angolo per timore di essere toccato, Joy invece sembra essersi riabituata facilmente alla sua casa, ai suoi genitori, al nuovo compagno della madre. In un secondo momento la situazione si ribalta: è Jack, “plastico” come lo definisce il medico, ad adattarsi al “nuovo mondo” che poi è semplicemente il mondo di prima visto da un’altra angolazione, mentre Joy è ancora più arrabbiata, delusa, ferita, allontana tutti come se non riuscisse a tornare alla vita. Uno dei momenti per lei più duri sarà l’intervista in cui senza nessun rispetto per la vittima la giornalista si insinuerà tra le pieghe di quei tragici giorni, interrogando, sviscerando, “violentando” Joy e la sua storia. Sarà di nuovo Jack a riportarla alla vita, ad insegnarle che vale la pena vivere.
Room, pur prendendo le mosse da una storia ripugnante, compie la sua strada, tortuosa ma la percorre in modo estremamente “semplice”: Lenny Abrahmson infatti, anche grazie alla sua sceneggiatrice, realizza un film giusto, senza sbavature né imperfezioni tali da distruggere la sua potenza, tanto doloroso quanto lirico, in grado di schiaffeggiare e ferire chi guarda ma anche accarezzare e stringere.